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Pubblicato il Gennaio 29, 2021

Le vittime dell’individualismo

Quando l’uomo pensa di essere autosufficiente si preclude il dialogo, la compassione e la collaborazione

24 Gennaio 2021

La solidarietà, che è una caratteristica degli umani, ha tre figlie: la capacità di dialogare, la compassione e la collaborazione in vista di progetti comuni. Ognuna di esse ha la propria casa e agisce in uno di quei tre ambiti della vita che distinguono l’uomo in quanto persona: l’intelligenza, la volontà, l’azione. Il dialogo impegna l’intelligenza, la compassione muove la volontà, la collaborazione si sviluppa nell’azione. Quando queste tre sorelle hanno vita piena, l’uomo gode di buona salute e sente che la sua vita ha valore.

 

Purtroppo, la solidarietà deve affrontare un nemico che si annida in un bisogno fondamentale che l’uomo sente e che deve essere soddisfatto a ogni costo: il bisogno di affermazione personale. Quando l’uomo confonde questo bisogno con l’illusione di essere autosufficiente e vuole chiudersi in se stesso, cade nell’individualismo, che è il suo vero nemico mortale. E le prime vittime dell’individualismo sono proprio la capacità di dialogo, la compassione e la collaborazione.

 

Della prima vittima dell’individualismo, la capacità di dialogare, ho parlato in articoli precedenti e ho anche indicato le armi che usa per renderla inattiva: il tarlo della comunicazione, l’indebolimento della ragione, la fatica di pensare. Per un maggiore approfondimento desidero citare il capitolo sesto dell’enciclica “Fratelli tutti”, dove papa Francesco ha scritto pagine bellissime. Adesso propongo alcune considerazioni sulla seconda vittima, la compassione.

 

La compassione ha una sorellastra, che spesso si intromette e ci può ingannare: il sentimento di pena o di pietà. Sono molto simili, e facilmente si scambiano l’una con l’altra. Anche i dizionari non sono molto sicuri nel definirle. Devo quindi restringerne il significato a quanto desidero esprimere in questo contesto. Nel senso al quale alludo, la pena è un sentimento che ci fa star male, ci scomoda, ci induce a chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza altrui e a non volerla vedere; semplicemente perché il vederla fa male a noi e non perché fa male all’altro.

 

La compassione vera, invece, è un sentimento per il quale un individuo percepisce la sofferenza altrui come propria, ne soffre sinceramente, ed è portato a fare qualcosa per alleviarla. Mentre la pena confluisce in una serie controllata di pensieri intesi ad assicurare il distacco da chi soffre, la compassione riflette l’anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire con l’altro. E’ un patire assieme. E’, come esorta san Paolo nella lettera ai Romani (12,15), un “rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e piangere con quelli che sono nel pianto”. Nella compassione ci riconosciamo simili a colui che soffre, considerando che potremmo trovarci a vivere analoghe condizioni di sofferenza. Per questo non ci fa sentire superiori in nulla. Il sentimento di pena, invece, ci può portare anche a esprimere un giudizio di condanna per chi soffre, pensando che se l’è meritata.

 

La compassione non è solo espressione di un amore vero, ma è anche quella forza che ci permette di assumere nei confronti degli altri in genere l’atteggiamento migliore. E’ quello che nel linguaggio popolare è definito come il “mettersi nei panni degli altri”. E’ un atteggiamento che favorisce molto i rapporti reciproci: nell’ambito della professione, nel lavoro, in famiglia, nella chiesa, nella società in genere. Penso che sarebbe molto fecondo anche nella politica. Lascio ad altri elencare tutti i frutti che questo detto popolare, quando è vissuto, è capace di produrre.

 

Termino con un breve accenno alla terza vittima dell’individualismo: la capacità di collaborare a un progetto comune. In questo caso, l’arma che la ferisce mortalmente è la competitività, che si è sovrapposta all’ambizione in senso buono, ossia il desiderio di fare sempre meglio. L’individualismo cerca la collaborazione solo per trarne una utilità egoistica e, sotto il suo manto, spesso nasconde il peggiore dei rapporti umani, lo sfruttamento della persona.

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