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    Pubblicato il Febbraio 16, 2021

    Dentro le relazioni si torna a vivere

    Dipendenze - Marco Sirotti, psicologo e psicoterapeuta, spiega il funzionamento delle Comunità terapeutiche

    di Maria Silvia Cabri

     

    La droga oggi si compra ovunque, anche sul web, e si consuma ovunque. Per questo è urgente non abbassare la guardia». Marco Sirotti, psicologo e psicoterapeuta, da 25 anni è nel mondo delle comunità di recupero e attualmente è il coordinatore dell’area dipendenze del Ceis (Centro di Solidarietà, nato a Modena nel 1982, diventato poi Fondazione Ceis Onlus), tutti servizi convenzionati con il SerT.

     

    Su Modena ci sono quattro comunità terapeutiche, tra cui una specifica per madri e figli, una struttura semi residenziale e il servizio ambulatoriale.

    Dottore qual è oggi il ruolo delle comunità terapeutiche?

    Per uscire dalla tossicodipendenza un trattamento farmacologico o puramente medico della durata di 2/3 settimane non è sufficiente: dopo quel primo “impatto” è necessario un percorso di rieducazione della persona.

    Cosa intende con “rieducazione”?

    La droga detta il ritmo della vita di chi ne è dipendente. In comunità aiutiamo i ragazzi a rimettere al centro se stessi. L’utente deve essere rieducato a riprendere in mano la sua vita, le proprie abitudini. Chi fa uso di droga organizza la propria esistenza intorno all’assunzione della sostanza. Quello è il perno. Per disintossicarsi devono prendersi nuovamente cura di sé: le Comunità servono appunto ad aiutarle in questo percorso e a ristabilire il giusto ritmo di vita che prima era stata stravolta, con cadenze definite. Alzarsi alla mattina, curare la propria igiene personale, avere uno stile di vita sano. Le sostanze disregolano le emozioni, come “tappi” che occludono. Occorre accompagnare i soggetti a ritrovare il piacere di vivere il proprio mondo emotivo di “prima”.

    Rimettere al centro se stessi. Come si fa?

    Cocaina ed eroina sono sostanze che annientano la vita di chi ne fa uso, tarando ogni momento dell’esistenza attorno alla dose. Per questo, restituire a queste persone una regolarità è fondamentale. Partendo dal reinserire determinate azioni quotidiane nella loro routine.

    Come si agisce?

    Innanzitutto occorre indagare sulle tre “aree”: la storia tossicologica, quella familiare e quella affettiva. Tutto questo attraverso l’attività dei gruppi e dei colloqui che vengono condotti da psicologi e operatori. Inoltre ogni volta che viene coinvolta anche la parte prettamente medica con la necessità di una terapia farmacologica, costante è la nostra collaborazione con lo psichiatra, il dottor Christian Drusiani. L’uso di sostanze crea “cortocircuiti” ed è necessario recuperare tutte le funzioni. L’approccio è multidisciplinare: sono coinvolti diversi specialisti: psicologo, psichiatra, educatori, terapista della riabilitazione psichiatrica.

    Reputa sia ancora “utile” il compito delle Comunità?

    Tantissimo. Il nostro scopo è curare la persona attraverso le relazioni che sono state interrotte, inquinate dall’uso della sostanza. In questo contesto importante è anche il ruolo della famiglia: perché la tossicodipendenza colpisce non solo il soggetto che ne fa uso ma tutto il suo nucleo familiare e affettivo, nonché l’aspetto lavorativo. Ogni settimana si organizzano gruppi anche con i parenti al fine di preparare progressivamente tutti, utente e famiglia, al suo reinserimento sociale una volta terminato il percorso in Comunità.

    Quanto dura un percorso di riabilitazione?

    Un anno in comunità, sei mesi di reinserimento lavorativo, per il quale ci avvaliamo della collaborazione del Sert e di aziende del territorio. La fase dell’ingresso e quella dell’uscita sono le più delicate. Perché la comunità è un luogo protetto. Per questo è fondamentale accompagnare, gradualmente, al rientro nella “vita fuori”. L’altro giorno

    un ragazzo mi ha detto “Voglio essere un bravo papà”. Abbiamo deciso di farlo uscire per andare a prendere a scuola la sua bambina. Questo è quello che fa un bravo papà, questa è la vita fuori che lo aiutiamo a ricostruire.

    Come si è evoluto nel tempo il vostro approccio?

    Negli anni Ottanta si entrava in comunità solo se si raggiungeva la “sobrietà” dalla sostanza. Oggi invece accogliamo e aiutiamo a raggiungere la “sobrietà”, che quindi non è più il presupposto ma l’obiettivo. E’ cambiata anche la tipologia di utenti: l’eroinomane che “si fa in vena” non esiste praticamente più. Oggi ci sono i “poliassuntori” che utilizzano il tipo di sostanza (cocaina, eroina, cannabinoidi, antefatime) in base al tipo di prestazione che desidera: rilassarsi, essere più performante sul lavoro o nelle relazioni con gli altri, vincere la paura. L’eroina oggi si sniffa o viene, soprattutto, fumata; parimenti la cocaina.

    L’età media?

    Si è abbassata: nel 2000 era sui 35/40 anni. Oggi 30 anni. E abbiamo anche dei moduli per minorenni (dai 16 anni in su): ad oggi ne abbiamo in cura sette e c’è la lista di attesa. Questo perché la droga è sempre più legata al mondo dello sballo. E si trova ovunque: nelle scuole, in parrocchia, su internet, e si fuma ovunque. Anche per questo la famiglia fatica a creare per i proprio figli degli ambienti totalmente sicuri.

    Cosa invece non è cambiato?

    La solitudine, la freddezza, l’ansia, la mancanza di punti di riferimento e di prospettive. Per questo noi lavoriamo moltissimo sulle relazioni e sul recuperare il senso della propria vita, per dare a queste relazioni lo spessore per riempire il vuoto creato dall’uso della droga. Dietro il ricorso alle sostanze c’è sempre una sofferenza: trovarne la ragione è uno degli scopi del nostro lavoro terapeutico.

    Cos’è che spinge a entrare un tossicodipendente in comunità?

    Le spinte sono tante. C’è chi entra perché a causa della droga ha perso il lavoro, chi la famiglia, chi perché si è ammalato e vuole sopravvivere. Chi perché è stato arrestato. Ci vuole una scintilla, uno choc. Deve essere una scelta libera, qui i cancelli sono sempre aperti. Poi ci sono anche le fragilità, inviate in urgenza dall’unità mobile del Sert e i detenuti che vengono ammessi alla misura alternativa, il 10% degli ospiti.

    Come avete affrontato l’emergenza Covid?

    Noi non abbiamo mai interrotto i percorsi di cura. Ci siamo dotati degli strumenti previsti dalla normativa e predisposto camere per le eventuali quarantene e per gli ingressi. Massima è stata la collaborazione con l’Ausl e gli uffici dell’igiene pubblica. Il lockdown ha avuto un effetto contenimento, per cui gli abbandoni sono stati pochissimi, dal momento che la vita in comunità ha permesso di non vivere le situazioni di isolamento e solitudine che invece hanno vissuto le persone fuori dalla Comunità. In tema di ingressi i numeri sono stati in linea con gli anni scorsi.

     

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