Percorso in salita
Parità di genere - Donne tra famiglia e lavoro al tempo del covid-19. Preoccupa l’aumento dei casi di violenza.
di Lucia Truzzi
Difficile concentrare in un unico contributo un tema ampio e molto stimolante come “donna e pandemia, lavoro e famiglia”. Ho provato a sviscerare in alcuni punti il mio pensiero, attingendo dalla mia esperienza personale di figlia, madre e lavoratrice, e dalle letture e passioni personali mantenute nel tempo. Sono cresciuta in una famiglia in cui mia madre e mio padre erano lavoratori ed entrambi si prendevano cura della casa, di me e dei miei due fratelli più piccoli. Tuttavia, mio padre lavorava più ore a settimana fuori casa, quindi era mia madre che si occupava di venirci a prendere a scuola e portarci alle attività extra-scolastiche, aiutarci nei compiti ecc. durante la settimana, cose che mio padre recuperava nel weekend.
In casa ho sempre respirato aria di “parità di genere” nella vita di tutti i giorni, con le ricchezze che un uomo e una donna possono apportare nello svolgere compiti di cura; ma nel confronto quotidiano con i miei coetanei ho percepito che non era così per tutti. Purtroppo occorre riconoscere che non è cambiato molto se ancora oggi fra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, il numero 5 è dedicato alla “parità di genere”. Il tema della donna-madre-lavoratrice è ancora attuale e molto dibattuto: lo era prima della pandemia e lo è, a maggior ragione, ora con una pandemia mondiale che non ha fatto altro che portare all’estremo le disuguaglianze sociali già in essere. A giugno 2019 seguii frequentando un corso di formazione organizzato dall’Ordine dei giornalisti sugli “stereotipi nell’informazione”, rimasi impressionata, in particolare, dall’intervento della giornalista Silvia Bonacini sugli stereotipi di genere, che esponeva dati allarmanti sulla persistenza di rappresentazioni stereotipate e pregiudizi su identità e ruoli delle donne e sul mancato riconoscimento di autorevolezza e posizioni sociali e lavorative delle donne.
Per esempio, ad essere intervistati nei telegiornali, nei radiogiornali e nei quotidiani di 114 Paesi al mondo ci sono gli uomini nel 76% dei casi, mentre le donne sono visibili soprattutto come vittime o vox populi, mentre faticano a raggiungere il 20% come esperte. In un contesto di questo tipo i dati ISTAT 2020 che raccontano di 101mila persone che hanno perso il lavoro a dicembre, di cui 99mila donne e soltanto 2mila uomini e dei 444mila occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, di cui il 70% costituito da donne, purtroppo impressiona, ma è coerente con quello che si è respirato fino a oggi.
La pandemia ha reso la vita difficile a tutti, ma alcuni settori, alcuni tipi di lavoro, alcuni soggetti, ne hanno sofferto più di altri, sono stati portati allo stremo. Una costante è che nel mondo del lavoro le donne sembrano essere sempre e comunque i soggetti più sacrificabili di questa società, quelli di cui si può fare a meno e il mondo va avanti lo stesso. La pandemia ha portato con sé anche lo smart working, un’arma a doppio taglio: un passaggio obbligato per poter continuare a lavorare al riparo dal virus, ma di difficile applicazione quando si tratta di donne che debbono conciliare il lavoro aziendale da casa con il carico di lavoro familiare interamente o comunque prevalentemente sulle proprie spalle.
Rita Levi Montalcini (1909-2012) diceva: “Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente: hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale…, ma sono la colonna vertebrale della società” e io ne sono sempre più convinta.
Diciamo che nel 2021 speravo di poter leggere e scrivere di dati più incoraggianti relativi alla tematica donna e lavoro, invece siamo ancora qui a raccontare una disuguaglianza persistente, radicata e sacrificabile.