Giovani a Venezia e Trieste lungo la rotta balcanica
Testimonianze dal viaggio organizzato da Caritas Carpi, con la Ong Bambini nel Deserto e i Centri Missionari di Carpi e di Modena. “Parlare di fenomeno migratorio e di mobilità è stato un modo per parlare dell’oggi e di noi stessi: come possiamo diventare una comunità accogliente?”
di Virginia Panzani
“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità, di verità…”. Queste le parole di De André a cui si è ispirato il viaggio, svoltosi dal 24 al 30 agosto, tra Venezia e Trieste, per conoscere e approfondire il percorso di speranza di uomini e donne che percorrono la rotta balcanica. All’iniziativa, organizzata da Caritas Diocesana di Carpi, in collaborazione con la Ong Bambini nel Deserto e i Centri Missionari di Carpi e di Modena, hanno partecipato dieci giovani – tra i 19 e i 27 anni – e tre accompagnatori, Roberta Della Sala di Caritas Carpi, Gloria Guerra di Missio Modena, e Laura Pugnaghi di Bambini nel Deserto, insieme agli amici esperti Diego Saccora e Anna Clementi, autori del volume “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”.
Parlare di fenomeno migratorio e di mobilità è stato, dunque, un modo per parlare dell’oggi e di noi stessi: cosa sono i confini, che succede a chi prova a superarli, cosa vuol dire respingimento? Siamo una società che include o esclude? Come possiamo diventare una comunità accogliente? Sull’esperienza vissuta e su questi temi offre la sua testimonianza Roberta Della Sala, referente per il settore migranti di Caritas Carpi.
Roberta, in che modo, in base a quanto avete visto e imparato, il Nord-Est dell’Italia è raggiunto dalla rotta balcanica? A qualcuno potrebbe sembrare un fenomeno che interessa, più che altro, la Turchia e i Paesi dell’ex Jugoslavia… perché dunque interessarsene? Oggi, però, la presenza dei rifugiati afghani ospitati nel nostro territorio ci rimanda ad un collegamento diretto con i profughi loro connazionali che percorrono questa rotta…
La rotta balcanica e il fenomeno migratorio in generale ci insegnano che ogni persona è un dono e l’accoglienza è lo strumento più potente che abbiamo per comprendere e valorizzare meglio noi stessi e gli altri. Attraverso l’accoglienza dell’altro diventiamo migliori e impariamo a restituire umanità e diritti a tutti. Durante questo viaggio abbiamo incontrato tante persone, di tante nazionalità, compresa quella afghana, seconda solo ai siriani lungo la rotta balcanica. L’incontro coi volti ci salva la vita, come ha affermato don Paolo Iannaccone a Trieste, incrociare questi sguardi e creare interazione non è solo un atto di carità ma una necessità per poter essere felici, per stare bene con noi stessi e con gli altri.
Qual è stato il riscontro dei giovani partecipanti al viaggio? Più in generale, quale donna adulta ancora giovane, come si è confrontata con loro e con i giovani che avete incontrato là, con il loro modo di vedere il mondo? Insomma, se si può dire così, che tipo di gioventù ha conosciuto?
Questa mia esperienza a stretto contatto con i giovani mi ha ricordato innanzitutto quanto sia davvero importante coinvolgerli. Io per prima sento il bisogno di un contatto con loro perché hanno la capacità di mostrarti un altro modo di vedere e analizzare la realtà che ci circonda. Questo è un tipo di gioventù che s’interroga molto, su sé stessi e sugli altri, che si lascia stupire e guidare; che si emoziona, si commuove e si reinventa. Stare accanto a loro rigenera, ma aiuta anche a riflettere su che tipo di futuro vogliamo o necessitiamo. Una gioventù portatrice di bellezza, ma anche di fragilità, che esige da noi adulti coerenza, esempi da seguire e testimonianze. Mi sono arricchita molto della loro presenza e delle caratteristiche di ciascuno, convincendomi sempre di più che la vera sfida oggi, è costruire una comunità accogliente a partire dai giovani, non per loro, ma insieme a loro, perché sono il presente, non il futuro…Continua a leggere
Giacomo Radighieri, giovane di Rolo, commenta la sua esperienza a contatto con i “buoni samaritani” di oggi
“Farsi prossimo” ci interpella tutti
Vorrei schematizzare la questione della migrazione verso l’Europa secondo due approcci. Il primo consiste in uno sguardo pratico alle necessità materiali che l’accoglienza comporta. Occorre investire in adeguate strutture di prima accoglienza, accompagnare lo straniero in un percorso di integrazione e ricerca lavoro e così via. Una risposta razionale al fenomeno che si sono date le istituzioni è quella di ridurre il flusso migratorio, selezionare chi ha diritto a rimanere, accompagnare fuori dai confini nazionali chi non è regolare.
Il secondo sguardo è di umanità. Si riesce a comprendere quando il migrante, lo straniero, il clandestino, diventa persona. Persona con una storia, un passato. Uomo o donna che molto spesso ha meno di venticinque anni ed è costretta ad uscire dalla propria comunità di origine alla ricerca di un futuro.
Nel viaggio a Venezia e a Trieste abbiamo toccato entrambi questi modi di leggere le migrazioni. A Trieste ci sono cittadini che quotidianamente confortano chi si trova in situazioni di necessità, chi arriva in città dopo lunghi giorni di viaggio. Sono uomini e donne che aiutano migranti irregolari, secondo uno sguardo. Sono persone che si prendono cura di altre persone, secondo un altro sguardo. In fondo il gesto è semplice quanto disorientante: donano un po’ di cibo, nuovi vestiti, curano le ferite del viaggio e danno indicazioni su come chiedere asilo nel nostro Paese. Mi ha fatto male vedere come questi “buoni samaritani” di oggi agiscano spesso nell’indifferenza delle istituzioni e della Chiesa.
Al termine di questo viaggio porto in cuore due riflessioni. La prima è che il sistema dell’accoglienza italiano ha tutte le potenzialità per poter funzionare al meglio, occorre però che chi opera al suo interno, agenti di polizia, operatori, funzionari, politici, possieda lo sguardo di umanità e sappia vedere in ogni migrante una persona. La seconda riflessione è che tutti noi che ci definiamo cristiani abbiamo il dovere di possedere lo sguardo di umanità verso chi ha bisogno di aiuto, è fin troppo facile voltarci dall’altra parte.
“La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così»” (Papa Francesco, Fratelli tutti, n.81).
Giacomo Radighieri