Giornata della Memoria. Continuità di valori per il futuro
Per non fare della Memoria della Shoah un monumento inerte.
di Brunetto Salvarani
Nessuna società che si rispetti – scriveva lo storico Enzo Collotti, scomparso qualche mese fa – può vivere senza la legittimazione di una comune memoria storica. È necessario convivere con il proprio passato, ma anche esplicitare di quali valori si intende affermare la continuità, se la memoria, e le rappresentazioni che a essa si vogliono associare, non deve rimanere monumento inerte ma un segnale permanente proiettato verso il futuro”.
In questa chiave, tornare al furto, con rapido ritrovamento, della targa del lager di Auschwitz, quella con la sinistra scritta Arbeit macht frei, trafugata nella settimana prima del Natale 2009, può servirci a riflettere più a fondo sul senso del fare memoria oggi, e in particolare del fare memoria della Shoah, al cui riguardo è stata istituita la Giornata della Memoria. Con la legge n.211 del 20 luglio 2000, com’è noto, il Parlamento italiano ha scelto di aderire alla proposta internazionale di indirla ogni 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, nel ’45.
Si tratta certo di un’iniziativa positiva, che nel corso degli anni ha incontrato il favore di scuole ed enti locali: la discussione andrebbe aperta, piuttosto, sul senso da dare a tale ricorrenza, e su quali valori s’intende affermare la continuità, affinché la memoria, e le rappresentazioni che a essa si vogliono associare, non restino monumento inerte ma segnale permanente proiettato verso il futuro.
Attenti alla “memoria qualunquista”
Eppure, proprio a partire da quel lontano dato di cronaca, il trafugamento di quella scritta i cui responsabili erano un pugno di gaglioffi qualunque, forse su commissione di qualche riccastro collezionista, Elena Loewenthal, scrittrice ebrea, ha deciso di metterci in guardia del rischio di una memoria qualunquista di Auschwitz, firmando il libro Contro il Giorno della Memoria. A suo parere, ci siamo ormai abituati a ritualizzare il nostro rapporto con il passato, in particolar modo con quel passato di cui il cancello di quel lager è l’ingresso: e, di conseguenza, a caricarlo di una sacralità che, nel bene e nel male, lo rende qualcosa di astratto e impalpabile. Tuttavia Auschwitz, argomenta Loewenthal, non è affatto un luogo sacro: è reale, vero, spaventosamente concreto.
La riduzione della memoria a un catalogo di simboli non rende onore alle vittime, né al nostro quanto mai disorientato presente: essa rischia invece di banalizzare il ricordo, facendolo dipendere da una targa di ferro battuto che, occhi a terra e cuore infagottato in uno sgomento inenarrabile, i milioni di prigionieri passati lì sotto non facevano quasi in tempo a vedere.
Educare alla Memoria: un caso serio
Nel Talmud, libro centrale per l’identità ebraica, si narra che, quando un bambino che sta per nascere è ancora nel corpo materno, una luce gli splende sul capo e apprende tutta intera la Torah; mentre arriva il momento di uscire al mondo, però, arriva un angelo che gli posa le dita sulle labbra, perché dimentichi tutto e non possa parlarne, in futuro.
La suggestiva parabola espone una nozione cruciale per Israele (ma anche per tutte e tutti noi), sospesi costantemente fra l’urgenza della memoria e la necessità dell’oblio. Parafrasando Qohelet, potremmo dire che c’è un tempo per fare memoria, e un tempo per astenersi dal ricordare. C’è un tempo per fare memoria, perché quanto accaduto non abbia mai più ad accadere, e un tempo per astenersi dal ricordare, per non vedersi inchiodati a un passato che va capito, superato, messo in discussione. Per non farne un idolo, come tutti gli idoli illusorio e inutile.
Dobbiamo riconoscerlo: esiste, in effetti, un diffuso ricorso retorico all’appello alla memoria, un riferimento talora puramente celebrativo, ornamentale, privo di reale mordente. E c’è, d’altra parte, il rischio di diffondere la convinzione della necessità di una pacificazione sociale conseguibile al prezzo dell’afasia o della smemoratezza, giungendo al punto di occultare le fonti storiche o di riabilitare i colpevoli, trovando una colpa nelle vittime. È un caso serio, l’educazione alla memoria, l’apprendimento progressivo di questo esile filo interiore che ci tiene faticosamente legati al nostro passato: individuale, familiare, della società civile cui apparteniamo e della comunità di fede cui, nel caso, facciamo riferimento. Nella Giornata della Memoria, l’invito alle istituzioni è di organizzare cerimonie e incontri di narrazione dei fatti e di riflessione.
Il “giorno dei vivi” che apre alla speranza
Peraltro – annota David Bidussa in Dopo l’ultimo testimone – nonostante il moltiplicarsi di iniziative pubbliche, il 27 gennaio rischia ormai la musealizzazione. Il fatto è che quel giorno ha un contenuto più problematico di quello che in genere gli è attribuito. In particolare, non è il giorno dei morti, per cui esiste già una data, il 2 novembre, nel calendario civile. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi: della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti. Perché un evento acquisti carattere pubblico per una comunità è vitale che si costruisca la consapevolezza di un lutto, e dunque di un vuoto.
In altri termini, di qualcosa che segni collettivamente uno scarto tra prima e dopo. La memoria pubblica è appunto la consapevolezza di quel vuoto. Un aspetto divenuto drammaticamente attuale nel silenzio generale di fronte, ad esempio, ai tragici fatti del Rwanda tra il ’94 e il ’95, e alla guerra civile nell’Algeria degli anni Novanta: casi emblematici in cui non si è attivata memoria. Né allora, né finora.
Il possibile indebolimento della Giornata (e della memoria della Shoah) nel tempo risiede qui: nella sua trasformazione in icona e, insieme, nel suo congelamento in un ricordo senza relazione con il presente e con la storia nazionale. L’imperativo per allontanarsi dalla retorica – soprattutto dopo la scomparsa dell’ultimo testimone – è la fuoriuscita dalla metafisica, per entrare in una dimensione storica, concreta, viva, e proiettata al domani. Capace, quindi, di aprire alla speranza.
Come aveva intuito meravigliosamente Etty Hillesum, destinata a bruciare appena ventinovenne nel lager di Auschwitz, che nel Diario scrisse: “Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così”.