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Il Settimanale, In punta di spillo, Rubriche
Pubblicato il Marzo 4, 2022

La sofferenza delle guerre è un dolore che ci unisce a dispetto di chi ci vuole nemici

 

È la prima volta che una guerra mi tocca così da vicino. Libia, Siria, Etiopia, Afghanistan… sì, ne provavo e ne provo dolore, ma erano guerre di cui la cronaca si limitava a darci degli scampoli, come se fosse cosa d’altri. Questa volta non è così. Vuoi perché ne abbiamo un resoconto ininterrotto, ma soprattutto perché ci è chiaro il pericolo delle conseguenze che essa potrebbe produrre fin dentro le nostre case. È forte la sensazione che non è più soltanto affare d’altri, questa volta è anche affare nostro. C’è poi una terza ragione di sofferenza, ed è l’impatto emotivo del dolore che ci viene servito dalla cronaca.

Un prete che vive in Ucraina mi manda il filmato di una bambina davanti a un militare russo, armato fino ai denti. È piccola, bionda, avrà sette, otto anni ed è alta uno spicciolo. Con i pugni cerca di colpirlo mentre con voce disperata gli urla in faccia: torna a casa tua, bastardo. Sullo schermo scorrono le immagini di un vecchio. Impasta le parole di lacrime. Ha trovato rifugio nei sotterranei, ma non sa quale sarà il suo futuro. Ha paura e la paura di un vecchio, come quella di un bimbo, è una crudeltà e una violenza nella violenza. Dall’Italia ascolto il pianto di una signora di 56 anni, consumata dalle fatiche. Da ventidue vive qui, dove ha svolto i lavori più umili per guadagnarsi il pane. Sta partendo per l’Ucraina. Vuole andare anche lei a difendere il suo Paese. Le chiedono se ha mai impugnato un fucile. Dice che forse non riuscirebbe neppure a tenerlo tra le mani, ma qualcosa farà.

Mi torna alla mente quello che ha detto il Papa, sabato scorso, incontrando una delegazione di alpini. Ha ricordato che nei momenti difficili non basta piantare le tende degli ospedali da campo, occorre la tenerezza, perché è lo stare accanto che serve. Ripenso a queste parole e sento nel cuore un moto di fratellanza per questa povera gente.

Però la cronaca non ci consegna soltanto il dramma del popolo ucraino, ma anche quello di tanta parte del popolo russo. Un popolo condannato al silenzio da una dittatura crudele. Migliaia e migliaia di arresti solo per essere scesi in piazza a dire no alla guerra. In Tv, il corrispondente da Mosca fa passare un servizio davanti all’ambasciata ucraina. Molte persone arrivano a deporre un mazzo di fiori. La polizia provvede a schedarle, una ad una, immediatamente. Una ragazza è appena stata fermata e arrestata. Un’altra signora, di mezza età, piangendo, chiede al nostro operatore che la riprende di dire agli italiani che i russi sono diversi e migliori di chi li governa. Ascolto tutto questo e avverto una profonda sofferenza. Soprattutto sento che la comune appartenenza al genere umano non mi consente più di avere passaporti. Quelli delle lingue, dei confini, delle razze, delle religioni… Ho solo il passaporto delle lacrime, del dolore, che mi impedisce di essere di qualcuno contro qualcun altro. Ucraino me too, anch’io sono ucraino, mi viene da gridare. Ma russo me too, russo anch’io.

Niente come la guerra accentua le ferite dell’umanità, mettendo in scena una fragilità che affratella. Perché sono i potenti a creare i nemici, i potenti quelli che fanno la guerra, per follia, per potere o per altro ancora. Mi fanno sorridere gli esperti di casa nostra che tentano giustificazioni improponibili, addossando colpe a destra e a manca. Putin è intelligente, ha dichiarato un noto squilibrato d’America. Tutti gli altri sono stupidi. Aspettiamo di sapere da che parte si è messo. La guerra di Putin è in realtà una guerra all’Occidente, perché ha capito perfettamente che la Russia non è più un modello di sviluppo per i Paesi post sovietici, i quali guardano invece all’Occidente e alle sue democrazie. Se non che, alla fine, a pagare è sempre la povera gente. Da qualsiasi parte si trovi.

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