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    Masi cho: grazie mille!
    Pubblicato il Novembre 9, 2022

    Prendere o lasciare?

    Un punto in cui la Chiesa può lasciarsi rigenerare.

     

    Nelle ultime settimane, con il mio trasferimento nella regione Sahtu dei Northwest Territories, ho avuto modo di entrare in contatto con alcune persone che vivono nelle comunità con le quali camminerò nei prossimi mesi. Mi è parso di trovarmi di fronte ad un caleidoscopio di storie ed esperienze molto diverse fra loro, con specificità ed elementi irriducibili gli uni agli altri. Una ricchezza multiforme e unica che, per così dire, fa da contrasto con l’estrema miseria e decostruzione delle strutture pastorali ed ecclesiali per come siamo abituati a pensarle noi occidentali.

    Esempio di questo è l’esperienza avuta a Colville Lake, piccolo villaggio oltre il circolo polare artico. Qui la chiesa, costruita in tronchi negli anni ‘60, ha solo una stufa a legna come mezzo di riscaldamento ed in più, dopo che un paio di anni fa c’è stato un piccolo incendio, non ha nemmeno più il collegamento con la corrente elettrica, c’è solo quella data da un generatore che viene attivato all’occasione. Con tale situazione e le temperature ormai già oltre i 10 gradi sottozero, le persone hanno optato per celebrare la messa nei giorni in cui li ho visitati all’interno di uno spazio che chiamano “centro giovani”: praticamente una sorta di living room con divani, una grande tv ed un angolo cucina. L’eucarestia in questo luogo, celebrata con un’assemblea variegata, fatta di giovani, bambini, adulti ed anziani, mi ha riportato alla mente l’immagine della do-mus Ecclesiae, casa di riunione e preghiera delle prime generazioni di credenti.

    E così vuoi questa stridente tensione fra umanità sfaccettata e ricca e vuoto strutturale; vuoi la lettura recente dei documenti di sintesi dei sinodi sulla sinodalità svoltisi in Italia, Svizzera, Francia e qui da noi in Canada – documenti nei quali si sottolinea una comune incapacità delle Chiese locali di coinvolgere le giovani generazioni, di farsi carico seriamente di accogliere ed accompagnare le persone omosessuali o coloro che dopo un primo matrimonio andato male hanno iniziato nuove relazioni, di riconoscere e attribuire il giusto valore alle donne nella vita ecclesiale e nella ministerialità istituzionalizzata ed altro ancora-; vuoi l’ascolto delle parole del Papa in occasione del suo incontro con i giovani della cara Azione Cattolica Italiana: fatto sta che ho cominciato a pensare che forse in questi anni abbiamo trascurato troppo una dimensione ecclesiale che, forse, merita di essere ripensata e ripresa in considerazione.

    Ritornando anche al mio servizio di parroco in Italia ho l’impressione che spesso le nostre parrocchie si siano pensate e strutturate come “spazi” in cui le persone potessero venire a prendere, luoghi fisici in cui erano offerte prestazioni di diverso genere per il bene degli uomini e delle donne – piccoli, grandi o anziani che ad esse si rivolgevano. Qualcuno parlava di centri di servizi, credo non a torto, descrivendo le nostre parrocchie.

    Estremizzando la visione si può dire che con tale connotazione si sia generata, quale controindicazione al fenomeno, la logica di una religiosità fai da te, di comunità (parola senza molto senso dopo gli anni 70 e forse nemmeno allora) che più che a reti spirituali di relazioni – communio sanctorum – sono finite per assomigliare a supermercati di prodotti legati al mondo del sacro, della ricreazione, dell’educazione, dell’assistenza, nelle quali se andava bene scattavano dinamiche da club fra alcune persone con bisogni affini.

    Di certo dico un’ovvietà se affermo che questo modello di chiesa era già stato relativizzato dalla teologia del Concilio, in particolare di Lumen Gentium, di Apostolicam Actuositatem, e della famosa opzione preferenziale per i poveri, concetto rilanciato da papa Francesco quando esprimeva il suo sogno di una Chiesa povera con i poveri. Tuttavia trovo utile, almeno per me, riprendere questo per interrogarmi su come poter immaginare un futuro differente e più aperto di quello che la “Chiesa del prendere” può offrire.

    L’esperienza del sinodo, con tutti i suoi limiti, dice qualcosa di interessante a tale proposito. Parla di un processo complesso ed articolato nel quale i cristiani, i battezzati, si incontrano fuori dagli schemi e dagli spazi pastorali strutturati abituali con altre persone, cercando di ascoltare insieme con loro cosa lo Spirito stia dicendo al cuore delle donne e degli uomini del nostro tempo, e da lì trarre materia prima autentica e genuina per dare sostanza, carne, storia all’azione della Grazia che accade nella luce della Parola, nelle azioni liturgiche, nella preghiera condivisa. Con questo la parrocchia da luogo del prendere si apre alla prospettiva di divenire lo “spazio del lasciare”.

    Ognuno porta il proprio impegno, la propria vita, il proprio slancio di missione ed evangelizzazione negli spazi ordinari del vivere, lavorare, incontrare, mettendola a disposizione dell’intelligenza della fede degli altri battezzati, esponendosi al rischio inevitabile di lasciarsi purificare, rimettere in discussione, rilanciare ed integrare dalle altrui esperienze. Ma ancora di più, facendo della preghiera della Chiesa ciò che è davvero, ossia, come diceva papa Francesco, “celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi” (EG 24). In tal senso l’andare in parrocchia potrebbe assumere il significato di connettere la propria esperienza contempl- attiva (espressione del cardinal Martini) a quella degli altri battezzati per riscoprire la gioia di essere popolo di Dio in esodo, non individui con bisogni religiosi da colmare.

    Dai confini del mondo dove mi trovo ora e nella situazione in cui sto vivendo il mio essere cristiano e prete, credo che questa idea di Chiesa come spazio in cui ciascun battezzato è chiamato a lasciare se stesso per essere rinnovato dalla Grazia dello Spirito, sia una sfida concreta che può permettere anche alle nostre parrocchie in Italia di trovare una via di alleggerimento strutturale, di riumanizzazione e di ritorno alla dimensione gioiosa dell’incontro con gli altri e con Dio come fonte di trasformazione.

    Concludendo: mi piace condividere con voi amici della nostra Chiesa di Carpi l’idea che i cristiani del futuro – e con loro la Chiesa -, più che a dei padreterni un po’ paternalisti e preoccupati della loro influenza, assomiglieranno sempre più ai Magi del Vangelo di Matteo, che portarono, non senza fatica, il meglio di loro stessi ai piedi del bambino nato a Betlemme; al ragazzino del quarto Vangelo che, mettendo a disposizione i suoi cinque poveri pani d’orzo e i due pesci, permise al Signore di attuare il segno della sua cura per l’umanità sfinita; ai discepoli di Emmaus che, come narra Luca, tornarono a Gerusalemme portando il loro infuocato e gioioso Vangelo della Risurrezione.

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