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Intervista a Ester Armanino

CulturalMente, una rubrica di Francesco Natale.

Intervista a Ester Armanino

 

È da poco trascorsa la Festa della Mamma. La cultura spesso ha reso omaggio alla fondamentale figura materna che anche noi vogliamo celebrare in questo spazio. Lo facciamo con Ester Armanino che per Rizzoli ha pubblicato “Mia mamma è una matrioska”, un albo illustrato che racchiude molteplici significati. Un racconto capace di spiegare la vita e le persone.

Da dove nasce la tua passione per le immagini?

La passione per le immagini nasce forse prima di quella per le parole quando, da piccolissima, sfogliavo “I maestri del colore”. Da adolescente disegnavo molto e illustravo e poi, facendo il liceo classico, sono rimasta affascinata dalle parole e quella è stata la “ricerca” che ho “calcato”. Però anche la mia scrittura è abbastanza immaginifica, cioè quando scrivo seguo delle immagini più che dei ragionamenti dei pensieri. Arrivare a fare un albo illustrato è stata forse un qualcosa di molto naturale. Lì riesco a coniugare parole e immagini che nella mia testa sono quasi un tutt’uno. La parola ha il peso dell’immagine e l’immagine ha spesso tanti significati nascosti.

In “Mia mamma è una matrioska” tu scrivi “il guscio più esterno è il cappotto che indossò sua nonna quando andò a votare per la prima volta nel 1946”. Andare a votare è uno dei diritti più importanti, assieme a quello del poter lavorare, ma spesso le mamme lavoratrici vengono criticate…

È un tema molto complesso. Viviamo in una società che tende a ragionare molto per stereotipi in cui c’è la madre che fa solo la madre e si occupa di accudire e i padri che pensano al lavoro e spesso passano pochissimo tempo in casa. Le donne che si mettono a fare carriera, nello stereotipo, competono con l’uomo, trascurando la famiglia. Le donne tendono a “tenere” tante cose perché è giusto che ognuna parte di noi possa esprimersi. Sicuramente è difficile tenere tutto. È difficile essere madri e continuare a lavorare perché è la società che spesso non ce lo rende possibile. È la società stessa che è impostata in questo modo.

Sempre nel tuo libro scrivi, a pagina 40, “guscio dopo guscio cerco la parte più piccola di tutte, talmente piccola che la puoi perdere se non fai molta attenzione”. Ma se è già protetta dagli altri gusci, come si fa a perdere la parte più piccola?

Perché la parte più piccola spesso ci dimentichiamo che esiste. Ha una duplice natura. Da un lato ci ricorda che siamo stati piccoli, siamo stati semplici. Siamo stati legati a una parte di noi, a un’unità, al nostro “essere interi”. Poi, ruolo dopo ruolo, di quella parte ce ne dimentichiamo, ma è proprio la parte più vera di noi, più autentica, e quindi va protetta perché la nostra libertà parte da lì. Noi non siamo un guscio soltanto, ma siamo tutti i gusci che abbiamo accumulato crescendo e sono rappresentati da questo “seme”. La bambolina più piccola della matrioska si chiama proprio seme e nel mio racconto è il seme della libertà.

Una matrioska, se perde un guscio, rimane sempre una matriosca. Ma allora che cosa perde?

Anche il concetto di perdita è relativo. Nel libro cito anche delle parti di noi che possono rimanere a metà. Può rimanere la parte di sopra o quella di sotto. Il guscio più esterno e quello più interno si parlano in una sorta di unicum e quindi forse si possono perdere i gusci così come possiamo rimanere con un guscio soltanto. L’idea è che bisogna tenere tutto insieme nella consapevolezza di quello che siamo e anche di quello che abbiamo perso. Non è una cosa da poco sapere cosa perdiamo.

Essere madri è una missione o un sogno?

Si può essere madri di tante cose, non soltanto dei figli, in realtà. È una natura. Si è madri anche quando si adotta un figlio, non per forza quando lo si concepisce. Si è madri anche nel rapporto con gli alti. Spesso i bambini e le bambine sono padri e madri degli adulti. È un concetto molto ampio. Io credo che quello che si chiama maternage sia una sorta di attitudine che però non esclude tante altre attitudini.

 

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