Editoriale - Vorrei ma non posso
di Luigi Lamma
Un giovane collega di lavoro che si è trasferito con la famiglia da una regione del sud in Emilia-Romagna condivideva la sua preoccupazione su come provvedere alla cura dei suoi due bambini una volta terminate le scuole. Non potendo contare sui nonni in appoggio dovrà ricorrere ai centri estivi e alla babysitter per coprire le giornate di lavoro dei due genitori: si prospetta un conto davvero salato per il bilancio familiare. Questo è uno dei tanti esempi che fanno dire che il nostro non è un paese nel quale il desiderio di genitorialità si può esprimere pienamente. Con la convocazione degli “Stati generali della natalità” il tema sta diventando centrale nel dibattito pubblico: la terza edizione che si è svolta l’11 e 12 maggio, ha visto alternarsi ministri ed esperti, la Presidente del Consiglio e il Papa. La denatalità, o inverno demografico, che investe l’Italia ancor più di altri paesi europei dove con adeguate politiche si è riusciti ad invertire la rotta, è un’emergenza che dovrebbe stare a cuore a tutti e interpella responsabilità politiche a livello nazionale ma anche le amministrazioni locali possono fare la loro parte. Su quest’ultimo aspetto il nostro giornale non manca di rilevare le buone pratiche del territorio e di stimolare iniziative più incisive a sostegno delle famiglie e dell’infanzia.
È opportuno però cominciare a declinare con chiarezza i dati di fatto escludendo i luoghi comuni che non aiutano a mettere a fuoco il problema. Una lettura qualitativa di una recente indagine statistica ci dice che le donne italiane negli ultimi trent’anni hanno desiderato in media di avere 2,2-2,4 figli. Purtroppo, poi, ne fanno 1,24. Quindi come sostiene Gigi De Palo, promotore degli Stati generali, “c’è un desiderio che in Italia non viene trasformato perché mancano i presupposti perché ciò avvenga, ma a livello culturale il desiderio c’è. Non bisogna incolpare i giovani purtroppo il figlio è impossibile farlo, essendo la seconda causa di povertà in Italia, dopo la perdita del lavoro di uno dei componenti della famiglia”. È cruciale cogliere questo passaggio: “considerare la denatalità frutto di una mentalità culturale e sociale è un ragionamento che si potrebbe fare solo dopo che per una decina di anni si è fatto in modo che la nascita di un figlio non comporti un impoverimento, non sia più una questione privata, ma diventi una questione legata al bene comune, sia considerata a livello fiscale, venga accompagnata da un segnale serio con un assegno unico – come avviene in altri Paesi – molto importante”.
In sintesi di fronte ad un futuro visto più come minaccia che come sogno bisogna creare il più possibile le condizioni perché i giovani possano inseguire i loro progetti lavorativi e familiari, affinché le donne possono realizzare il loro desiderio di maternità. Come ha affermato il Papa nel suo intervento, che riportiamo a pag. 4, “la sfida della natalità è questione di speranza”, che “non è un vago sentimento positivo sull’avvenire, è una virtù concreta e ha a che fare con scelte concrete”. In questa prospettiva, “alimentare la speranza è un’azione sociale, intellettuale, artistica, politica nel senso più alto della parola; è mettere le proprie capacità e risorse al servizio del bene comune, è seminare futuro. La speranza genera cambiamento e migliora l’avvenire”. A cominciare dal basso, dalla famiglia, dalle reti di famiglie, da comunità territoriali coese e creative nel dare risposte a questo bisogno di futuro.
Condividi sui Social