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Loda il Signore, Gerusalemme

Commento al Vangelo di don Carlo Bellini - Domenica 11 giugno 2023.

Loda il Signore, Gerusalemme

 

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Commento

Nella solennità del Corpus Domini leggiamo un brano del capitolo 6 del vangelo di Giovanni. Il capitolo 6 è molto importante e ben costruito ed ha un profondo significato eucaristico. Inizia con il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, poi segue un episodio in cui Gesù cammina sulle acque per andare dei discepoli e termina con un lungo discorso nella sinagoga di Cafarnao che partendo dal miracolo del pane ha per tema il pane di vita. In tutto il capitolo la folla cerca Gesù, lo segue e tenta di vederlo ma l’incontro rimane sempre frustrato poiché c’è fraintendimento e incomprensione. La moltiplicazione dei pani doveva mostrare Gesù come il nuovo Mosè, nel quale Dio si prende cura degli uomini e invece viene fraintesa come il prodigio di un dio potente che può dare da mangiare a sazietà. Il popolo cerca sempre una soluzione per i suoi problemi materiali e se possibile anche un leader potente. Infatti il racconto termina con Gesù che si ritira da solo sulla montagna perché tutti lo cercavano per farlo re.

Nel discorso nella sinagoga di Cafarnao Gesù cerca di spiegare quello che il popolo non ha compreso partendo dal riferimento alla manna. Come la manna è stata un’esperienza fondamentale per il popolo di Israele e gli ha fatto capire che doveva avere fiducia in Dio così Gesù si presenta come la nuova manna, dice «io sono il pane di vita, chi viene a me non avrà mai più fame; chi crede in me non avrà mai più sete» (Gv 6,35). Parole simili sono ripetute all’inizio del brano di oggi, in cui la riflessione diventa più esplicitamente eucaristica. È abbastanza evidente che in questi versetti ritroviamo la riflessione delle prime comunità cristiane sulla celebrazione delle loro eucaristie. Gesù parla di mangiare la sua carne e bere il suo sangue suscitando tra l’altro l’incomprensione degli uditori che si mostrano sempre e forse con un po’ d’ironia troppo concreti. Mangiare il corpo e bere il sangue fa sicuramente riferimento al sacramento dell’eucaristia ma ha anche il senso più ampio di avere fede nella Parola e nella persona di Gesù. La conseguenza della partecipazione piena di fede a questo sacramento è la vita eterna, cioè partecipare alla vita di Dio.

In secondo luogo questa è la via per la comunione con Gesù. Vita eterna e comunione con il Risorto sono ciò che il cristiano chiedeva e chiede anche oggi come centro della sua vita di fede. L’eucaristia è il punto d’arrivo dell’incarnazione: il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14) e questa carne diventa pane che sazia la vita degli uomini. Il sacramento dell’eucaristia rimane nella stessa logica dell’incarnazione. Certo non dobbiamo correre il rischio dei Giudei di cercare una razionalità stringente nel mistero eucaristico. C’è un po’ di ironia nell’immagine degli uditori di Gesù che si chiedono come è possibile mangiare la carne di Gesù. Ironia mista a tristezza per una generazione che non riesce a fare spazio a una realtà simbolica ricca che parla di un dono da accogliere con gioia. L’incomprensione porta anche a materializzare eccessivamente l’eucaristia come se fosse un automatismo o una magia. Pochi versetti dopo Gesù dice «è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e vita» (Gv 6,63). La meraviglia e la grandezza dell’eucaristia sono proprio in questo delicato equilibrio di una realtà che è contemporaneamente tutta spirituale e tutta materiale.

Non è facile anche per noi oggi vivere appieno questo sacramento che da sempre è il punto di arrivo della vita del cristiano adulto. Non dobbiamo dare per scontato una realtà sacramentale che invece è sempre una sfida, perché mette in gioco il nostro modo di essere nel mondo rimanendo aperti a una densità di significato che non si esaurisce mai. L’eucaristia contesta radicalmente un modo diffuso di pensare la vita come un insieme di prestazioni e cose che vanno fatte. Invece è il luogo del dono e della gratuità e richiede un fondo di silenzio e di predisposizione alla contemplazione. La capacità di vivere il sacramento è legata a una certa libertà di spirito che sa decentrarsi da sé e accogliere il mondo come il luogo di una presenza donata.

L’opera d’arte

Alexander Coosemans, Allegoria dell’Eucaristia (1660 ca-.), Le Mans (Francia), Musée de Tessé. Rispetto alla consueta iconografia dell’ultima cen, in questa solennità del Corpo e Sangue di Cristo, proponiamo un’opera del pittore fiammingo del ‘600, Alexander Coosemans. Nativo di Anversa, lavorò anche a Genova e a Roma, specializzandosi nelle nature morte.

Proprio attraverso questo genere interpretò il soggetto dell’Eucaristia, come un calice sormontato dall’ostia, posto in una nicchia circondata da frutti e fiori. Ogni elemento ha un significato simbolico-teologico: le spighe di grano e i grappoli d’uva rappresentano rispettivamente il pane e il vino, dunque il corpo e il sangue di Cristo; le due cornucopie, ai lati della nicchia, alludono alla prosperità della creazione; i melograni simboleggiano la vita eterna, mentre le pesche la salvezza e le virtù, le mezze pere la fedeltà, e infine le rose le ferite della passione di Gesù. La luminosità “gentile” della composizione è data dall’ostia stessa, che reca impressa su di sé la sagoma di un crocifisso. Il tutto è reso con la tipica attenzione veristica dell’arte fiamminga ai dettagli, ed in particolare a come le diverse materie reagiscono alla luce.

V.P.

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