Il ponte: una questione di arte
Proseguiamo la nostra riflessione sulla costruzione di ponti tra Chiesa e società. Nei mesi scorsi già abbiamo toccato il tema dell’ascolto attivo per fare spazio alla ricchezza altrui e riflettuto sull’importanza di dotarci di uno stile propositivo e di contenuti di sostanza, in linea con la Parola ed il magistero ecclesiale. A questo punto i gradini preliminari sono superati e occorre addentrarsi nella costruzione vera e propria. Da dove partire per gettare le fondamenta, anche e soprattutto se le posizioni sono distanti? Pensiamo, ad esempio, a temi complessi in ambito etico, ambientale, all’accoglienza dei migranti, alle emergenze legate alla povertà, all’occupazione, a come costruire la pace. E molti altri sono i temi caldi che stanno a cuore alla Chiesa e alla società. Ed è proprio da qui che occorre partire, dal ricordarci vicendevolmente che questi temi ci stanno a cuore perché riguardano il bene di ogni persona umana e di ogni gruppo sociale. E in quel “ci”, ci stiamo dentro proprio tutti, credenti e non.
L’idea, quindi, è quella di partire dal terreno comune e soltanto in un secondo momento iniziare a limare le differenze che necessariamente ci saranno. Si tratta di un complesso lavoro di sintonizzazione, di venirsi incontro vicendevolmente, a partire da ciò che fa risuonare insieme la melodia della cura. L’obiettivo non sarà, quindi, ottenere di vedere realizzato il nostro progetto, la nostra idea, il nostro modello. Questa è ancora una logica divisiva perché dire “nostro” significa contrapporre “vostro”, l’amico al nemico. Al contrapporsi occorre sostituire la logica del compromettersi, verbo che, purtroppo, spesso associamo a una valenza negativa. Leggiamo invece in un buon vocabolario della lingua italiana che esso significa accordarsi, impegnarsi reciprocamente in un’azione di interesse comune. Contrapporsi significa porre un ostacolo, una barriera, un muro tra due parti in lotta; compromettersi significa, al contrario, progettare e costruire insieme qualcosa di bello, buono e giusto.
Non è logica del do ut des, ma realizzazione del massimo bene possibile, un intreccio di destini ove ciascuno offre il proprio contributo per un progetto che apra vie di umanizzazione. Forse le parti in gioco non otterranno tutto, ma il massimo bene possibile, sempre e comunque perfettibile. Qualcuno storcerà il naso, soprattutto chi vede in questa logica il tradimento di un rigore che non può essere per nessuna ragione scalfito. Ma a pensarci bene, questa è la sola via percorribile in un contesto democratico e multiculturale quale quello in cui siamo immersi. Il rischio è un dorato isolamento asfittico, nostalgico o rabbioso. Per concludere, costruire ponti richiede l’arte dell’ascolto, l’arte del dialogo e quella della compromissione mettendo cuore, testa e mani. In sintesi, è una questione di arte. Alla prossima.
Condividi sui Social