Editoriale - (Non) sono solo canzonette…
di Brunetto Salvarani
Nel programma del Festival filosofia 2023 dedicato al tema “parola” (15-16-17 settembre Modena-Carpi-Sassuolo) è prevista una serata (venerdì 15 ore 21- chiesa di Sant’Ignazio) dal titolo “ Ovunque proteggi la grazia del mio cuore Dalla Parola di Dio ai testi della canzone italiana” condotto da Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini con Tiziano Bellelli e Marika Benatti, chitarre e canto. Il Museo Diocesano ospita nei giorni del Festival la mostra Parlare con Dio – La parola che si fa liturgia e preghiera curata da Andrea Beltrami e Mauro Giubertoni.
Negli ultimi anni, anche dalle nostre parti – certo, in ambienti un po’ di nicchia – si è preso a parlare di pop theology. Materia ancora sfuggente e poco definibile, sta di fatto che, per quanto mi riguarda, ormai da tempo sto cercando di cogliere qualche frammento delle tracce disseminate da Dio nella Bibbia e nella storia umana, in diversi materiali di consumo culturale che mi appassionano: dai fumetti di Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo creato da Tiziano Sclavi, alla più celebre famiglia a cartoon, i Simpson ovviamente; dalle canzoni di Guccini e De André – appunto – alle poesie e alla fiction di svariati autori di tanta letteratura, contemporanea ma non solo. Ci ho scritto su dei libri, li ho usati per corsi di formazione a docenti, o per laboratori didattici. Con esiti, lo ammetto, quanto mai curiosi ai miei occhi.
Ed è per questo che, in qualche ambiente ancora di nicchia sta sorgendo la nozione, certo piuttosto ballerina, di teologia pop. Vale a dire, dal punto di vista della teologia ufficiale – quella che, in Italia almeno, viene prodotta al 99 per cento da figure istituzionali delle varie chiese, presbiteri e pastori in primo luogo – un teologo che si occupa di cose pressoché inutili, frivole, al massimo intriganti: ma nulla più. Difficile, almeno in parte, dar torto a tale tesi; fumetti, cartoon, canzonette, versi… Prodotti assolutamente inutili, come ammise il poeta Montale ricevendo il Nobel per la Letteratura parlando della poesia, ma quasi mai nocivi, e questo è uno dei loro titoli di nobiltà.
E qui mi torna in mente una vecchia storiella che vede protagonista un paracadutista sorpreso da una tempesta e capace di indovinare al volo la professione di un viandante che passa sotto l’albero su cui è andato a finire cadendo. L’impresa gli riesce in quanto ciò che quegli gli risponde (“Scusi, signore, mi può dire dove sono?”. “Certo, è sopra un albero”) non gli serve a nulla per togliersi dall’incomodo: “Lei è senz’altro un teologo! Come ho fatto a intuirlo?
Semplice: quel che ha detto è giusto ma inutile!”. Eppure, quello che molti considerano il più grande teologo cattolico del Novecento, il tedesco Karl Rahner, oltre mezzo secolo fa dedicò un saggio illuminante sulla canzone della musica leggera: anzi, come la chiamava, sulla “canzonetta”. Egli sosteneva che la vera potenzialità della canzone non si sprigiona quando si accende la radio o lo stereo per ascoltarne le note: la canzone assume tutta la sua potenzialità non quando è semplicemente ascoltata, ma quando giunge ad essere cantata o canticchiata o fischiettata nella vita quotidiana, magari “con naturalezza e a cuor leggero”. Soltanto allora le sue caratteristiche possono essere svelate. In tal modo essa “dal padiglione del cuore penetra come un’eco nello spirito e nell’animo dell’uomo”. La canzone va cantata, non soltanto ascoltata. Il motivo che Rahner adduce è di grande profondità: la canzone canticchiata serve all’uomo “ad esprimere chiaramente a sé stesso la propria essenza” e, in tal modo, a “evitare che, restando silenzioso, egli debba soffocare”.
Roba da preti…
Applicata alla teologia di casa nostra, in realtà, la battuta sopra riportata si potrebbe rivelare persino ottimista: non è affatto scontato, infatti, che nella percezione comune quanto dicono i teologi venga in genere considerato almeno giusto. Inutile, senz’altro, per la vita di ogni giorno, visto il relativo interesse in merito al sesso degli angeli… E comunque afferente a una disciplina di cui, tradizionalmente, da noi è normale mettere in discussione lo statuto epistemologico e lo stesso carattere di scienza.
La cosa ha radici che vengono da lontano, con un picco nel contesto dell’Ottocento postunitario: con la convinzione, tipica delle classi dirigenti liberali del giovane Regno, secondo cui la religione sarebbe stata da confinare alla sfera delle opzioni private, nelle more delle variegate risonanze della Questione romana e del relativo conflitto tra Stato e Chiesa, che contribuivano a leggere il fattore R, le religioni tutte, come estraneo, o addirittura pericoloso, per lo spazio pubblico. Dopo il Vaticano I, per di più, si aboliranno le Facoltà di teologia nelle università statali (1873), ma i cattolici, per molti motivi, non avvertiranno la gravità dell’episodio. Con la teologia, volente o nolente, ridotta a roba da preti… Chiusa fra le certezze delle sue mura imponenti e di circuiti accademici autosufficienti, ma incapace di farsi ascoltare al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori.
Ecco perché papa Francesco, il 10 aprile 2014, a docenti e studenti della prestigiosa Facoltà teologica Gregoriana, ha detto a chiare lettere: “La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà […] ma tutto questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio”. Forse è anche per questo sfondo che, alla fine, devo ammettere che la definizione di teologo pop non mi spiace. Anzi. Far incontrare (e scontrare) la Parola di Dio contenuta nella Bibbia con le dinamiche culturali del tempo che siamo chiamati a vivere, in fondo, era l’intento di Giovanni XXIII quando convocò il Concilio Vaticano II deprecando l’opera di tutti i profeti di sventura (ora come allora assai in voga).
E non è casuale che, tra i messaggi finali di quello stesso concilio, Paolo VI ne volle uno ad hoc rivolto agli artisti. Mentre, personalmente, sono convinto che le più riuscite chiose a quell’assise straordinaria, nel nostro Paese, nei dintorni di quegli anni ci siano venute da due opere d’arte non propriamente canoniche: un film come Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, e un disco come La buona novella di De André. Opere cruciali che, al di là delle stesse intenzioni dei rispettivi autori hanno rivestito una diretta influenza teologica sulla cultura nazionale dell’ultimo mezzo secolo, molto più di tanti volumi di teologia ufficiali, spaesati di fronte alla rivoluzione conciliare esattamente come i teologi che li firmavano.
Gesù, il più grande filosofo dell’amore…
Anche per questo, credo, vale davvero la pena di proseguire negli esperimenti che stanno comparendo sul mercato editoriale nostrano: ricercando, a rischio di forzature e di sorrisetti di compatimento, i barlumi di un Vangelo secondo i Beatles o secondo Harry Potter (o Leonard Cohen, com’è capitato di fare al sottoscritto con Odo Semellini, qualche anno fa). Valorizzando incroci, suggestioni, ipotesi di lavoro. Evidenziando prospettive marcatamente interdisciplinari e interculturali. Ammettendo che molte delle distinzioni classiche che davamo per scontate, come quella di credenti versus non credenti, non funzionano più (come intuì il cardinal Martini echeggiando Norberto Bobbio, che non a caso preferiva quella fra pensanti e non pensanti…). Del resto, non si può negare che negli ultimi anni spesso, in eventi culturali assai frequentati quali i festival di piazza (come il nostro Festivalfilosofia), gli appuntamenti aventi per oggetto temi religiosi e biblici sono tra i più affollati.
In un quadro che – recitano i sociologi avvertiti – registra una sorta di dissolvimento del cattolicesimo a fronte di un deciso aumento della complessità religiosa in Italia, è sensato considerare questi e altri segnali come iniziali segni dei tempi di una teologia da farsi con la mente aperta e in ginocchio? Come predicò (invano) Paolo VI, il principale dramma della modernità era, ed è ancora, il divorzio fra i cristiani e la cultura contemporanea. Chissà, forse negli ambienti che contano qualcuno sarà costretto a prendere in considerazione persino la pop theology. E a fare i conti, ad esempio, anche con Guccini, Capossela o De André. Che è arrivato a dichiarare: “C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza […] Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta […] Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo”. Rileggendo queste parole, tornano in mente quelle di don Antonio Balletto, il prete concittadino di Faber che ne celebrò i funerali a Genova, per il quale “non dimenticare De André ci aiuta a tirare avanti, a credere ancora all’uomo e al suo futuro. E ci aiuta a conservare un po’ d’umanità, in tempi che non sarebbero piaciuti per nulla a Fabrizio e che non piacciono neppure a noi”. Il che, a conti fatti, oggigiorno, non appare davvero un esito da poco.
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