Migrazioni: stop alla logica dell’emergenza
Accoglienza organizzata e diffusa in Europa.
di Edoardo Patriarca, portavoce Festival della Migrazione
La tematica è difficile e complessa, gli esperti direbbero multidimensionale e multidisciplinare: le migrazioni, l’argomento al centro della cronaca e dell’odierno dibattito pubblico. È un tema da sempre divisivo, non solo in politica, ma anche dentro la società civile. Nello spazio breve di un editoriale non potrò che andare solo per cenni. Nel dibattito di questi giorni si gioca di rimbalzo, di rimando in rimando, un gioco di specchi che frastorna e lascia un retrogusto amaro, ci convinciamo che le migrazioni in fondo in fondo non avranno mai una soluzione vera e duratura.
Vivremo anche questo passaggio in emergenza, elmetto in testa, sperando nello stellone d’Italia, nella buona fortuna? Ma come si può vivere in questo stato emotivo? Come possiamo comunicare speranza ai nostri nipoti se la nostra mente e il nostro cuore si avviluppano su visioni tristi e distorte del futuro? Propongo qualche dato di realtà, ciascuno di noi poi si farà la propria opinione, in libertà e coscienza. Siamo di fronte ad un fenomeno strutturale: gli uomini da sempre si muovono per fuggire da persecuzioni e da povertà, alla ricerca di migliori condizioni. Lo hanno fatto nel secolo scorso i nostri bisnonni e nonni, quasi venti milioni, e lo fanno oggi i nostri giovani. Sta accadendo anche oggi nel mondo, si calcolano in un centinaio di milioni le persone potenzialmente pronte alla migrazione o già in viaggio. Dunque, prima riflessione, un fenomeno strutturale non può essere trattato permanentemente come una emergenza. Va governato, o andrebbe governato: dobbiamo prendere atto a malincuore che nel nostro paese e in Europa sono decenni che non viene messo in cantiere un progetto serio di governo delle migrazioni. Sarà la volta buona?
Altro punto, per combattere gli ingressi irregolari occorre prevedere ingressi regolari e controllati. La normativa vigente lo impedisce, nessun imprenditore assume a scatola chiusa un lavoratore contattandolo direttamente nel suo paese di origine. E se volesse farlo, con quali mezzi? Attraverso i consolati? Quando mai! È tanto evidente che il nuovo decreto flussi, come i precedenti, che prevede l’ingresso 450mila lavoratori, servirà a regolarizzare gli irregolari già presenti nel paese, non a promuovere nuovi ingressi. Insomma, vanno gestite le partenze coinvolgendo i paesi di origine, potenziando le strutture dei nostri consolati e la presenza delle istituzioni europee per favorire l’incontro tra domanda offerta di lavoro. E va cambiata la nostra normativa.
È risaputo che rinchiudere i rifugiati in mega centri per un anno, e fra un po’ per 18 mesi, in attesa di verificare se la domanda di asilo può essere accolta, porterà a poco. È tempo davvero sprecato, poco rispettoso della dignità delle persone, un tempo sospeso nel nulla. Prevedere solo servizi minimi, pasti e un letto, senza organizzare nel frattempo percorsi di inclusione trasformerà i Centri per il rimpatrio (esistono dal 1998 sotto altri nomi) in luoghi ad alta tensione sociale, inutili e fallimentari. A coloro che non hanno diritto alla protezione dopo i 18 mesi verrà consegnato un foglio di via, una formalità burocratica, inefficace perché nessuno ripartirà nel paese di origine, andando così ad ingrossare l’esercito degli irregolari.
Mi direte: obblighiamoli, ma ahimè i rimpatri organizzati sono costosi, devono prevedere un accordo con il paese di origine, nel 2022 sono stati all’incirca tremila, un’inezia. Perché, al contrario, non organizziamo una accoglienza diff usa a minor impatto? Perché non prevedere nel frattempo corsi di lingua e di educazione civica, la verifica delle competenze e una formazione per un inserimento lavorativo? Gli imprenditori denunciano da mesi la mancanza di manodopera! E la nostra Europa? Non è giunta l’ora di una politica europea delle migrazioni? I ricollocamenti non dovrebbero essere doverosamente obbligatori? Il Regolamento di Dublino non va rivisto? È l’Europa intera che ha la forza e la potenza necessarie per costruire partnership e canali di cooperazione allo sviluppo con la riva sud del Mediterraneo e con l’Africa sub sahariana.
Dopo i colpi di stato nei paesi del Sahel, dopo i disastri ambientali di Marocco e Libia, dopo le guerre civili in atto in Sudan e non solo, ci vuole davvero poco ad immaginare cosa accadrà nei prossimi anni se continueremo a praticare vie nazionali, spesso in competizione tra loro, illudendoci di governare un processo che dicevamo, all’inizio, strutturale e complesso.