Anche una coppa può dare una mano a sentirsi più italiani
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani.
Altri, più e meglio, hanno commentato nei giorni scorsi la vittoria dei tennisti italiani che, dopo 47 anni dall’unica precedente vittoria, hanno portato a casa la Coppa Davis, detta comunemente Insalatiera. In realtà, a casa hanno portato una copia in miniatura, essendo l’originale largo oltre un metro di diametro e del peso di 105 chili. Fissato su tre piedistalli, è una specie di monumento, che porta incisi i nomi dei vari vincitori a partire dal 1900, anno in cui venne assegnata la coppa per la prima volta.
Senza nulla togliere al gruppo, va detto subito che il gran merito della vittoria va ascritto a Jannik (Giovanni in italiano) Sinner, un ragazzo di 22 anni, nato e cresciuto a Sesto Pusteria, 1900 abitanti, non lontano da San Candido. Di lui ci raccontano le innate qualità sportive. Tenace, educato, metodico, meticoloso nella preparazione fino alla pignoleria. A quattro anni inizia a praticare lo sci, dove si fa notare da subito, arrivando a mietere successi nella specialità del gigante. Sport che abbandonerà a tredici anni, per impegnarsi nel tennis. Racconterà di aver preso quella decisione considerando la brevità del tempo delle competizioni, in rapporto ai tempi lunghi della preparazione.
Se da profano parlo di Jannik è soltanto per sottolineare quanto la sua stella stia risvegliando sentimenti di unità nazionale. Sappiamo bene che lo sport, quando esprime qualche campione di razza, riesce sempre a risvegliare nella tifoseria sentimenti di orgoglio, di emulazione e di appartenenza. Chi ha qualche anno ricorda bene i vari Gimondi, Moser, senza scomodare Coppi e Bartali, i Mennea, Tomba, Gross, Sara Simeoni, Deborah Compagnoni… Campioni che ci tenevano incollati allo schermo, risvegliando sentimenti che i nostri antenati avrebbero chiamato romanticamente amor di Patria.
Rivivo con Jannik Sinner qualcosa di analogo, ma con una sottolineatura nuova, perché Sinner è cittadino del Tirolo orientale di lingua tedesca. Nei giorni scorsi girava sui social una vignetta, in cui ci si chiedeva se il ragazzo fosse italiano. Bastava guardare le prime due lettere del suo nome e cognome per conoscere la risposta, era il suggerimento che veniva dato. Ja, in tedesco e Si, in italiano, toglievano eventuali dubbi in chi era rimasto fermo ai tempi dei kaiserjäger, i soldati del Kaiser, e degli attentati, quando si mettevano le bombe per rivendicare il ritorno di quelle terre sotto la giurisdizione austriaca.
Ricordo gli anni del servizio militare, quando si andava a ispezionare possibili punti caldi, mentre si percepiva l’ostilità di chi considerava l’idioma di Dante come la lingua dei nemici. Sembrano trascorse ere geologiche, vedendo lo spirito di corpo con cui l’Italia, da Livigno a Capo Passero, si stringe orgogliosa al suo campione, sorvolando sull’accento che lo caratterizza, mentre lui sventola la bandiera italiana, di cui si sente rappresentante. Non si tratta soltanto del savoir faire di un campione, che ha l’obbligo della cortesia e dello stile per non giocarsi l’immagine. Il salto di qualità viene piuttosto dal fatto che lui, come tanti ragazzi, nati all’inizio del 2000, detti Generazione Z, ipertecnologici e pragmatici, ha superato nell’inconscio il senso di appartenenza campanilistica, quella dei regionalismi linguistici, per aprirsi ad una visione cosmopolita ed universale. Ragazzi profetici nelle loro aperture mentali, che ci indicano la strada per superare le barriere, quelle del passato sepolte ormai nella memoria.