I ragazzi della Via… Peruzzi
Gioventù a rischio marginalità
di Luigi Lamma
Ha più di un secolo (1907) il capolavoro della letteratura per ragazzi “I ragazzi della Via Pàl” dello scrittore ungherese Ferenc Molnar. Il romanzo, poi soggetto di numerose trasposizioni cinematografiche, racconta della “guerra” tra due bande di ragazzini per contendersi alcuni luoghi della città. Sono varie le interpretazioni della critica sul lavoro di Molnar, tra le più condivise quella che lo ritiene una denuncia sulla mancanza di spazi di aggregazione e di svago per i giovani. Nello stesso anno sull’isola di Brownsea sir Robert Baden Powell, desideroso di arginare il disagio della gioventù, realizzava il primo campo scout e l’anno successivo pubblicava Scouting for boys (Scautismo per ragazzi) l’opera che ha dato vita al movimento scout e alla diffusione del metodo educativo pensato dall’ex ufficiale di Sua Maestà. Qualche decennio prima (1841) don Giovanni Bosco dava inizio all’esperienza degli oratori raccogliendo i ragazzi dei quartieri più poveri di Torino offrendo loro opportunità di studio e di lavoro.
Nacque così l’intuizione del “metodo preventivo”. Un excursus storico necessario per comprendere che le tensioni, le manifestazioni pubbliche di disagio, che caratterizzano l’età adolescenziale e giovanile non è certo fenomeno di oggi. Si potrebbe continuare arrivando a tempi più recenti, con figure che hanno fatto la storia della chiesa carpigiana lasciando un segno indelebile anche nella società civile. Don Armando Benatti con il suo Oratorio Realino, don Zeno Saltini, con l’esperienza di Nomadelfia, sua sorella Mamma Nina con la Casa della Divina Provvidenza, don Vincenzo Benatti con le scuole professionali, don Ivo Silingardi con l’Istituto Nazareno, don Nino Levratti con l’Oratorio Cittadino… Quale il filo conduttore che ha animato queste personalità, oltre ad una solida fede ed un incrollabile senso di appartenenza alla Chiesa pur nelle tribolazioni e nelle incomprensioni di gerarchia e benpensanti? Prima di tutto che i giovani bisogna ascoltarli (“ask the boy” era la parola d’ordine di Baden Powell agli educatori), ascoltare i bisogni profondi ma senza limitarsi alle indagini sociologiche da cui siamo sommersi, piuttosto nella condivisione di tempi, spazi ed esperienze dai quali possono poi scaturire risposte di senso e opportunità di crescita. Si fa presto a portare gli studenti in piazza a gridare “no alla violenza” ma c’è forse qualcuno che afferma il contrario?
L’impatto emotivo può essere forte, sentirsi “comunità educante” può aiutare ma se poi tutto riprende come prima fuori e dentro le scuole… A parte il mantra della sicurezza su cui tutti sono diventati specialisti: più vigilanza, più poliziotti, più reati, pene più severe, più carcere, ecc… Basterebbe a questo proposito ripensare la soluzione, assai poco lungimirante, di radunare migliaia di studenti in poche centinaia di metri senza offrire loro altri luoghi diversi dagli spazi scolastici. E’ il momento di elaborare una risposta adeguata e seria per quella realtà giovanile che rischia di accentuare la propria marginalità sociale. Bene l’Università, bene i premi per gli studenti eccellenti, bene i progetti per la scuola 4.0 ma resta evidente che c’è una parte consistente di giovani che rimane tagliata fuori. E’ fatica impegnarsi per questi ragazzi, certo. E’ difficile muoversi in un contesto sempre più complesso e multiculturale, certo. Allora il problema non sono i giovani con le loro istanze, anche se purtroppo espresse con violenza in modo inaccettabile, ma chi non si assume la responsabilità di cercare soluzioni: nelle istituzioni civili perché è loro compito prioritario ma anche nella chiesa chiamata a perseverare nel solco di una tradizione che in questa terra non si è mai fermata alle parole ma ha generato opere.