“La Chiesa mi ha dato fiducia”
I nostri sacerdoti accompagnano ogni momento della vita dei fedeli: don Massimo Dotti alla guida della parrocchia della Cattedrale
di Virginia Panzani
Don Massimo Dotti, parroco della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Carpi, è uno dei circa 32mila sacerdoti secolari e religiosi al servizio delle 227 diocesi italiane. Dopo aver svolto diversi incarichi per la Chiesa di Carpi, a distanza di 22 anni dalla sua ordinazione sacerdotale, ha assunto per la prima volta la guida di una parrocchia, “sono diventato parroco piuttosto tardi”, commenta con un sorriso. Con don Massimo, in questa intervista, proponiamo la testimonianza di un pastore chiamato a continuare l’opera di Cristo, a diffondere la Parola di Dio, ad interpretarla e spiegarla, a consigliare e confortare i fedeli.
Don Massimo, in che cosa consiste il “mestiere” del prete, e più specificamente del parroco? E come puoi descrivere la realtà parrocchiale della Cattedrale?
La parrocchia è anzitutto un territorio, un quartiere: per noi coincide con una parte del centro storico e di prima periferia. Tengo molto a questo approccio perché quello che accade tra queste strade e in queste case, in un certo senso ti riguarda: delle persone che lo abitano sei chiamato a farti carico. La territorialità, nonostante la mobilità crescente, richiama alla concretezza di una rete di relazioni dalle quali non puoi prescindere: sono i volti e le persone che lo abitano con il dipanarsi della loro storia. In questo quartiere esistono una chiesa (più di una, in realtà), un oratorio con una scuola cattolica e le opere caritative della Venerabile Mamma Nina Saltini. Certo non tutti i parrocchiani che frequentano queste realtà abitano fisicamente nel quartiere: la storia di ciascuno li ha portati qui anche da altre zone e viceversa. Però a chi si sente della parrocchia del Duomo viene in un certo senso chiesto, e lo abbiamo fatto in diverse maniere, di farsi carico della cura pastorale delle persone che vivono in questo preciso territorio. Chi si apre alla vita e chiede l’iniziazione cristiana, chi desidera sposarsi, chi si ammala, chi cerca lavoro, chi muore… o anche semplicemente chi cerca spazi ed occasioni per riflettere e per pregare.
Come vi rapportate, tu e quanti vivono un forte senso di appartenenza alla parrocchia, con coloro che giungono in Cattedrale da fuori?
Sono persone che “ci competono” non per una rigida questione urbanistica ma perché parte di una comunità umana, un intreccio di prossimità che la chiesa sceglie di abitare. In un certo senso la territorialità capillare della chiesa garantisce che nessuno si senta estraneo ad essa, a vantaggio soprattutto a mio avviso delle appartenenze più labili e meno scontate. Per loro siamo chiamati ad esercitare una “cura” pastorale, a intrecciare delle relazioni che non partano principalmente da affinità elettive e nemmeno dalla condivisione di un denominatore comune di una stessa sensibilità teologica o spirituale – come accade nei gruppi ecclesiali – ma da una dimensione umana di ricerca spirituale che quasi sempre ha comunque nel Battesimo la radice che accomuna. E paradossalmente, sono proprio le persone di passaggio, per esempio che arrivano qui per motivazioni lavorative da altre regioni e per un certo periodo, a beneficiare di questo criterio di appartenenza.
Pensiamo a tappe importanti nella vita dei credenti, quali il battesimo, il matrimonio e anche le esequie. In che modo il sacerdote è chiamato a partecipare di questi momenti, condividendo gioie e dolori?
In punta di piedi, forti di un dono che ci è stato affidato. Ci si trova spesso immersi dentro a vicende umane più grandi di noi, semplicemente perché gli uomini e le donne del nostro tempo ancora desiderano viverle nella fede e accompagnate dalla comunità cristiana, nonostante tutto. Occorre maturare l’atteggiamento della discrezione e della delicatezza, dell’ascolto fatto anche proprio dal “saper tacere” ciò che sembrerebbe utile dire, ma non sempre è opportuno farlo. Ricordarsi che non siamo lì per noi stessi ma per il Signore, e che deve emergere nel tratto e nelle parole soprattutto la Sua di presenza, e la Sua vicinanza.
Il pastore non rischia, talvolta, di rimanere schiacciato dal peso delle “pecorelle” che porta sulle proprie spalle?
Non possiamo sempre contare al cento per cento sulla nostra emotività: a volte le sollecitazioni sono eccessive… e il coinvolgimento ci porta a “contorcimenti” del cuore, che è chiamato a vibrare per situazioni molto diverse e a volte addirittura opposte. L’affettività del prete si trova ad essere alquanto sollecitata: forse è proprio per questo che ritengo che il celibato sia stato per me un dono prezioso. La condivisione con la vita delle persone può essere non sempre spontanea ma sinceramente cercata, chiesta nella preghiera, nella scelta di essere accanto davvero. Sono gli stessi fratelli e sorelle, che ti coinvolto, che ti introducono attraverso la loro ricerca di Dio nel mistero di quello che stanno vivendo. Spesso sono proprio quelli che ai nostri occhi ci sembravano più distanti, o con pochi strumenti, che ci stupiscono manifestando l’agire di Dio nella loro storia. C’è gente che ai nostri occhi vive di briciole – a livello di partecipazione ecclesiale e di vita sacramentale – e mi chiedo come possa custodire una tale limpidezza di vita interiore e spirituale se non per un dono gratuito dello Spirito.
Cosa ti ha “insegnato” la vicinanza a tanti fratelli e sorelle nei momenti cruciali della loro vita? In che modo ti sei arricchito dal punto di vista della fede e anche dal punto di vista umano?
Che sia l’ebbrezza di gioia di una coppia che presenta un figlio per il Battesimo, la trepidazione di chi si prepara al matrimonio, o le tante sfumature di sofferenza nel dolore di chi sta provando a distaccarsi da un fratello che ha compiuto il proprio percorso terreno: ciascuno a suo modo può sentirsi toccato dalla Grazia di Dio che sa farsi accanto in modo personalissimo, misterioso e reale. Credo che la vita del prete sia una occasione di prossimità eccezionale. Mi spiace che non siamo in grado di comunicarlo alle giovani generazioni: sinceramente mi chiedo spesso il perché… Nelle vicende pastorali il prete è sempre più frequentemente affiancato da diaconi, religiose e fratelli e sorelle laici che condividono la stessa passione di prossimità nell’annunciare il Vangelo. Da tanti laici, anche più giovani di me, credo di avere imparato molto. Davvero è più quello che si riceve: la carità pastorale non è mai a senso unico. Spesso sono proprio i piccoli e i poveri, anche nella fede, che sono in grado di restituire un annuncio immediato e genuino, non scontato, del quale per grazia, proprio come una manna quotidiana, possiamo nutrirci.