Intervista a Michele D’Ignazio
CulturalMente, una rubrica a cura di Francesco Natale
Sono passati 12 anni dall’uscita del libro “Storia di una matita” (Rizzoli, 2012) che ha reso celebre Michele D’Ignazio soprattutto nelle scuole. L’autore ha di recente pubblicato, sempre con Rizzoli, un nuovo volume: “Fate i tuoni”. D’Ignazio, tornando a giocare con le parole, narra le vicende di due dodicenni: Murad e Zaira. Il primo scappa dalla guerra e cerca una nuova casa portando con sé un’ampolla con l’acqua dell’Ararat, mentre Zaira insegue un sogno che le fa passare giornate a sorvegliare un nido di Caretta caretta in attesa della schiusa delle uova.
Il titolo “Fate i tuoni” è solo uno dei tanti giochi di parole che ci sono nel libro. Perché ti piace giocare con i vocaboli?
Innanzitutto perché mi diverto. Da piccolo mi attaccavo alla radio a sentire Alessandro Bergonzoni e le sue incredibili acrobazie con le parole e i loro significati. Ma il vero motivo è voler far capire ai giovani, ma non solo a loro, che la lingua non è solamente un insieme di regole, ma si può sperimentare. E sperimentando, si capisce ancor di più l’importanza e la bellezza del linguaggio. Si va in profondità e si rimane incantati. Proprio come quando si guarda un giocoliere che stupisce. È importante che ci siano dei “giocolieri di parole”.
C’è un filo conduttore che lega sin dall’origine le vicende dei due protagonisti Murad e Zaira?
Sì, sono due storie che procedono in parallelo. Zaira cerca un sogno, qualcosa di importante in cui credere, non vuole trascorrere la sua estate a non far niente, vuole riempire le sue giornate rendendosi utile. Murad invece cerca una nuova casa. Insieme alla famiglia, sta scappando dalla guerra. Con l’alternarsi dei paragrafi, le due storie si avvicinano, fino a incontrarsi.
Sullo sfondo c’è un piccolo borgo che si sta svuotando. Come si possono riempire i vuoti non solo fisici, come in questo caso, ma anche dell’anima?
Facendo comunità. Curando le relazioni. Privilegiando la vita reale a quella virtuale. I paesi sono poco abitati, ma hanno un’anima. Quando si cammina nei vicoli si respira un’atmosfera particolare, magica. Al contrario, le città stanno perdendo la loro anima, viaggiano sfrenate in una direzione di omologazione e solitudine, nonostante siano sempre più affollate. Io credo che bisogna cercare per il futuro di ristabilire un equilibrio. Le città devono ritrovare la loro anima e tornare a credere nella comunità. I paesi devono ritrovare qualche abitante in più e sentirsi più centro, e non margine o periferia.
Nel 2012 usciva “Storia di una matita”. In questi 12 anni sei stato ospitato in molte scuole. Cosa ti hanno insegnato i ragazzi?
Tantissimo! Nel mio libro precedente, “Il mio segno particolare”, introduco ogni capitolo con un dialogo che ho avuto in questi anni con i bambini e i ragazzi, in giro per le scuole di tutta Italia. Tirano fuori idee spiazzanti, illuminanti, sono poetici e geniali. Pochi giorni fa, incontrando una scuola di Paola, vicino Cosenza, una bambina di dieci anni mi ha dedicato una poesia e all’interno c’era questa frase: parole come palloncini. Mi è piaciuta molto l’espressione! Perché si rifà all’idea di usare le parole per farci volare, per trasmettere allegria e farci stare bene. Il contrario della denuncia che tanti anni fa aveva fatto Carlo Levi nel suo “Le parole sono pietre”, che invece voleva raccontare come le parole a volte possono far male, si usano principalmente per scopi personali, possono diventare inanimate. Invece le parole-palloncini sono vive e cambiano forma. È una delle tante suggestioni che i bambini mi hanno regalato, e continuano a regalarmi, in questi anni di incontri.