Aiutare i giovani a scoprire la bellezza per diventare grandi
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Mi chiedeva una giornalista quali fossero le opere della Biblioteca Capitolare di Verona, la più antica al mondo, cui mi sentivo maggiormente legato. Sarebbe stato facilissimo fare un elenco di alcune di loro, quantomeno quelle più preziose, oggetto di attenzione da parte degli studiosi di tutto il mondo. Invece mi è venuto spontaneo rispondere che la cosa che maggiormente mi ispirava era la bellezza. E non pensavo certo alla bellezza, quella strettamente estetica delle miniature e dei virtuosismi calligrafici degli amanuensi del passato. Mentre pensavo alla bellezza, il pensiero andava ai contenuti che, lungo i secoli, hanno forgiato la mente e l’animo di generazioni di esseri umani, quelli che hanno fatto la storia. E mi veniva spontaneo chiedermi quanto oggi la didattica delle nostre scuole coltivi la bellezza dentro i corsi di studio. L’impressione, ma non è tanto un’impressione, è che lentamente, ma inesorabilmente, siamo slittati verso un modello di apprendimento in cui prevalgono le competenze pratiche, i progetti orientati alla professionalità, alla capacità di muoversi nel mondo, lasciando peraltro sguarniti gli animi delle nuove generazioni di quell’alfabeto minimo con cui orientarsi nella vita. È chiaro che ci troviamo difronte a una percezione nuova del ruolo dell’istruzione, essendo passati da una visione classica, in cui la si intendeva soprattutto come responsabile della formazione integrale della persona ad una lettura più strumentale ed impiegatizia. Siamo passati dall’educazione alla competenza. Ammoniva Giacomo Leopardi, due secoli fa: «Togliendo dagli studi il bello si farà un vero disservizio, un danno reale al genere umano, alla società civile». Per venire più vicino a noi, varrebbe la pena ascoltare quanto dice la filosofa ungherese, Agnes Heller. A chi le chiedeva cosa fosse importante tornare a insegnare a scuola, ha risposto con queste parole: «Prima di tutto insegnare solo cose inutili: greco, latino, matematica, filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che, in questo modo, a diciotto anni si ha un bagaglio con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose».
Sarà anche una provocazione, ma il pensiero va al Medioevo (quello che troppo spesso e ingiustamente consideriamo un’epoca oscura) quando la cultura era essenzialmente umanistica. Chi voleva diventare medico o ingegnere, avvocato o architetto… doveva studiare la metafisica, la filosofi a, la teologia… Poi, una volta laureato, era l’ambito operativo che gli forniva le indicazioni pratiche per esercitare il mestiere. Concretamente voleva dire che prima si costruiva la persona umana, il suo animo interiore, i valori, la coscienza e da quel fondamento si andava poi a formare il professionista. Ripartire dalla bellezza vorrebbe dire portare i ragazzi ad entrare nel mondo dell’arte, della poesia, della spiritualità (basterebbero Dante e il Manzoni, spiegati come Dio comanda per fare questo) attenti alle competenze dell’indirizzo professionale ma senza trascurare la filosofia. Che non è la scienza che fa venire il mal di testa. Semplicemente è l’arte di far funzionare il cervello.