Chiara Lodi (MSF) di ritorno da Gaza: “Urge la Pace”
La sua esperienza, i racconti, la visione della guerra raccontata da chi è stato in quelle terre, al centro del convegno promosso dal comitato per la Pace “Pacificazioni”
da sinistra Marco Reguzzoni, Chiara Lodi e Maria Silvia Cabri
“Gaza è veramente una prigione a cielo aperto”. La carpigiana Chiara Lodi, 41 anni, operatrice umanitaria e coordinatrice medica di Medici senza Frontiere, è appena rientrata da una missione a Gaza. La sua esperienza, i racconti, la visione della guerra raccontata da chi è stato in quelle terre, sono stati al centro del partecipato incontro “Testimonianza da Gaza”, promosso dal comitato per la Pace, “Pacificazioni”, in Auditorium San Rocco a Carpi. L’evento è stato promosso anche da Acli, con il patrocinio del Comune e il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi.
Chiara Lodi è arrivata a Gaza il 27 febbraio a Gaza ed è rientrata a Carpi il 18 aprile. Nel suo ruolo di operatrice umanitaria ha girato tutto il mondo, con oltre 20 missioni all’attivo, facendo parte del “team di emergenza” che è mandato nei luoghi delle catastrofi naturali e delle guerre. Tra i paesi in cui ha lavorato: Yemen, Cameroon, Congo, Repubblica Centrafricana, sud Sudan, Sudan, Palestina, Ucraina, Etiopia.
Chiara come è maturata la sua decisione di diventare operatrice umanitaria?
Come dico sempre, per me questo è un lavoro e, in quanto tale, tendo a “normalizzare” tutto. Mi sono laureata in Infermieristica e poi ho scelto di diventare operatrice umanitaria: sono una persona curiosa e sentivo che era ciò che desideravo. Tante volte dico che per me è meno complicato prendere un aereo e andare in Sudan che pagare l’assicurazione della macchina… Quindi ci sono cose normali per le altre persone che per me non lo sono e viceversa.
La missione a Gaza come è nata?
Faccio parte di questa unità di emergenza di Medici senza Frontiere: di solito nelle missioni “regolari” abbiamo contratti da tre o sei mesi. Possiamo essere chiamati in qualunque momento e non possiamo dire di no, salvo una sola volta all’anno in cui possiamo chiedere di non andare o di spostare la partenza. Ci sono delle rotazioni tra di noi: era il mio turno di andare a Gaza.
Dove però è rimasta meno tempo…
Sì, perché sono missioni “ad alto rischio”, e possono durare al massimo 8 settimane. Le condizioni di vita, il lavoro e anche la pressione che si vive sotto i bombardamenti sono molto stressanti. A fine mese tornerò in Sudan dove sono già stata altre tre volte.
Come ha detto, per lei è un “lavoro”. Ma ha vissuto qualcosa di diverso a Gaza?
La sensazione di una “prigione a cielo aperto”. Lo dicono tutti, ma nessuno fa niente. Mi era capitato solo un’altra volta, negli anni di missioni umanitarie con MSF, di vedere una cosa del genere: nel 2020, in Etiopia, durante la guerra del Tigrè, quando l’esercito etiope non faceva entrare aiuti umanitari, cibo, in particolari città. Anche se il contesto era diverso, villaggi piccoli. Si è parlato poco di quella guerra, ancora adesso non penso che tante persone ne conoscano i dettagli.
Blocco degli aiuti umanitari: anche a Gaza lo stanno drammaticamente attuando…
Sono arrivata il 27 febbraio, ossia pochi giorni dal cessate il fuoco: bene o male era ripresa la routine normale, come prima che iniziasse la guerra. Dopo due giorni, mi ricordo ancora, ero in una riunione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e cominciano a suonare i telefoni. Avevano di nuovo chiuso le frontiere. Tutti sono scomparsi per andare nei supermercati, al mercato, a fare scorta di cibo. Da subito abbiamo iniziato a razionalizzare tutto: cibo a casa, farmaci, qualsiasi cosa. Si vive con il desiderio che qualcosa si possa sbloccare, ma non cambia niente. Cercano di convincersi che ci sia ancora la speranza, ma nel cuore la popolazione lo sa che non c’è. Stando a Gaza, quello che si percepisce è che non cambierà niente, anzi peggiorerà.
Nello specifico, qual è il suo compito?
Tutti pensano che gli operatori umanitari internazionali vadano nei Paesi con lo zainetto con le siringhe e le garze, per andare in strada a curare la gente. No, non funziona così: il nostro compito è di organizzare, fare formazione e risistemare quello che è stato distrutto, ovviamente agendo in modo diverso a seconda che si sia in presenza di un’epidemia o di un una guerra. Non siamo noi quelli “con le mani in pasta”: a volte capita, sì, ma di solito no, e uno dei motivi fondamentali è che se lo facciamo la gente del luogo poi non impara, mentre noi cerchiamo di formare le persone in modo che siano poi autonome quando andremo via.
Come si affronta la chiusura delle frontiere? Come sopravvive la popolazione?
Al mercato i prezzi della merce, della verdura, sono altissimi, mancano acqua e benzina, i depuratori non vanno. La popolazione sopravvive con quello di cui avevano fatto scorta prima; poi sopravvive cominciando a tagliare i bisogni essenziali e si comincia a dare meno cibo alle persone che sai che sono più vulnerabili e che probabilmente non ce la faranno dopo, “privilegiando” con alimenti e acqua quelle un po’ più forti e che possono essere anche una forza lavoro. Vedi i bambini con in mano le taniche d’acqua che corrono a cercare i camion quando li vedono; negli ospedali, soprattutto nei centri di prima salute, iniziano ad arrivare bambini sporchi, malnutriti, con malattie della pelle.
Come gestite gli accessi negli ospedali?
A seguito dei triage, si prendono delle decisioni. Si tengono i farmaci per poter operare i casi gravi. Quelli che possono aspettare, aspettano, oppure si cerca di curarli in modo diverso, con antibiotici. Cerchiamo di salvare gli antidolorifici per i bambini e per le operazioni, magari se ne somministra un po’ meno e si esegue più velocemente l’operazione: quando si hanno poche riserve, si fa con quello che si ha.
Avete subito dei bombardamenti nei vostri ospedali?
Sì, li abbiamo chiusi, poi riaperti. Il 18 marzo sono ripresi i bombardamenti e ciò nonostante la legge internazionale dica che gli ospedali e il personale medico sono protetti.
Come gestite il tema sicurezza?
Ogni cosa, anche la più piccola, viene analizzata: se c’è qualcosa che non è chiaro, che non è sicuro o se ci sono dei dubbi, non viene fatta. Ci è stato insegnato come reagire.
“Apprezzare le piccole cose”: cosa intende?
Vedo come vivono i bambini e le famiglie: tantissimi non hanno la televisione, non hanno lo smartphone, non sapranno mai come si può vivere meglio. Per loro la vita è quella, come era qua tanto tempo fa; non hanno un’altra visione. Noi siamo davvero fortunati, e a volte mi colpevolizzo perché, nonostante io veda queste cose e sappia di essere fortunata, poi però rompo le scatole quando sono a casa per delle sciocchezze. Ma poi cerco di tenere in mente quello che ho visto. Le piccole cose, i piccoli gesti… quelli cui a un certo punto non si fa più caso perché diventano routine, normalità, come qualcuno che ti apre la porta o che ti fa passare davanti per la spesa. Cose che, secondo me, si sono un po’ perse. Per chi ha fatto gli scout come me, sa che questi gesti ci vengono insegnati veramente da molto piccoli. Te li porti dietro. E, anzi, gli scout sono stati uno dei motivi per cui faccio questo lavoro.
Tornerà a Gaza?
Se mi ci mandano, sì. A fine maggio parto per il Sudan e torno a fine agosto. E poi… a settembre mi sposo…
Maria Silvia Cabri