Intervista a don Claudio Burgio
Culturalmente, a cura di Francesco Natale
Si è tenuto mercoledì 14 maggio a Carpi nell’ambito del Festival delle Abilità Differenti l’incontro con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano Cesare Beccaria e mons. Erio Castellucci. Per questo numero di CulturalMente, a margine dell’incontro, don Burgio ci ha rilasciato un’intervista in cui ci ha parlato del suo libro “Non vi guardo perché rischio di fidarmi” (Ed. San Paolo, 2024).
Partiamo dall’attualità. Cosa l’ha colpita maggiormente del caso di Paderno Dugnano dove un minore ha sterminato la sua famiglia?
Mi ha colpito il fatto di essermi trovato di fronte ad un ragazzo assolutamente normale, quasi un ragazzo dell’oratorio, nulla che facesse pensare ad una situazione deviante, quindi un ragazzo che andava molto bene a scuola, un ragazzo che faceva attività sportive in una società, un ragazzo con tanti amici, una buona famiglia e quindi è impensabile quello che è avvenuto. Anche lui stesso mi dice “non so perché l’ho fatto” e non c’erano motivi veri e propri come un conflitto aperto con i genitori o col fratello. Il tutto è oggetto di perizia, ovviamente, e la perizia sembra abbia dimostrato che in quel momento la sua mente non era connessa e quindi questo è dovuto a un grande stress emotivo, quindi questo dice molto anche della fragilità dei nostri ragazzi e anche dei bravi ragazzi.
Nel suo libro, “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”, parla molto di musica, però nella musica che molti giovani ascoltano ci sono dei testi oggettivamente misogini che molti condannano, cosa ne pensa?
È chiaro che non possiamo giustificare tutto, quindi non è che possiamo legittimare tutti questi testi. Noi partiamo dai nostri parametri, dalla nostra cultura, dal nostro modo di giudicare, invece dobbiamo pensare che questi sono testi che narrano, raccontano un’infanzia assolutamente devastata, per cui la vera domanda è il come mai questi ragazzi hanno vissuto tutto quello che cantano, il com’è possibile che da bambini abbiano visto tutto quello che hanno visto, tutto quello che hanno sperimentato e lì ci si chiede dove era la scuola, dove era la famiglia, dove era lo Stato, quindi non si giustifica un testo che magari rappresenta anche disvalori, però lo si può comunque comprendere e ovviamente si spera che questo tipo di narrazioni possano evolvere nel tempo, perché anche nella sala della musica tanti sono partiti da testi anche da canzoni molto più violente e poi magari sono diventati invece cantanti che hanno ispirato una generazione intera.
Come rendere il carcere un luogo rieducativo?
Offrendo tante opportunità e non facendo in modo che il carcere debba rimanere un luogo solo di detenzione. Soprattutto quando parliamo di minorenni dobbiamo offrire loro opportunità formative, lavorative, scolastiche che possano permettere loro di trovare una nuova stagione della vita.
Quanto il suo percorso di fede l’ha aiutata in quello che svolge?
La fede è fondamentale perché ogni giorno si è a contatto con il fallimento, con il successo, con anche una fiducia che non sempre viene ripagata, per cui la fede ti aiuta a guardare questi ragazzi in un’altra dimensione, un’altra ottica che non è solo quella del risultato. Si sente parlare molto di microcriminalità giovanile, baby gang, termini che lei ritiene non corretti perché occorre guardare le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che vivono in tutta la loro vita… I reati che vengono commessi sono spesso frutto dell’improvvisazione, non c’è nulla di organizzato, di gerarchico, di gang nel senso vero e proprio, per cui avere dato questo slogan delle baby gang dal sapore sempre un po’ criminogeno rischia di deformare un po’ quella che invece è la realtà dei fatti. Questi sono bambini, innanzitutto: sono “baby”, poco gang, sono molto baby e quindi sono ragazzi molto analfabeti dal punto di vista emotivo, sentimentale, culturale e quindi vanno educati prima che registrati come criminali incalliti.