L’attualità delle favole per leggere in profondità il senso del nostro tempo
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
A voler andare indietro nel tempo, sei secoli prima di Cristo per l’esattezza, ci imbatteremmo in un certo Esopo. Di lui si dice che fosse uno schiavo comprato in Etiopia, finito in Grecia alla corte di qualche benestante dell’epoca. Si scoprì poi che nella testa di quello schiavo si nascondeva un patrimonio di saggezza che avrebbe condizionato la cultura del tempo e dei secoli a venire, a prova che intelligenza e sapienza non sono esclusiva dei ricchi e nemmeno dei potenti. La conferma potremmo averla anche guardando chi governa il mondo di questi tempi, gente uscita dalla scuola degli stolti, che rendono quanto mai attuali le parole del poeta francese Paul Valery il quale sosteneva che “La guerra è un posto dove uomini, che non si conoscono e non si odiano, si uccidono, in base alle decisioni prese da uomini che si conoscono e si odiano, ma non si uccidono”.
Per tornare a Esopo, egli fu il grande inventore delle favole, diventando il padre di una lunga generazione di scrittori di questo genere, da Fedro a La Fontaine, fino al Collodi di casa nostra. Se oggi ricordiamo ancora La volpe e l’uva, La gallina dalle uova d’oro, La cicala e la formica… lo dobbiamo alla sua creatività e fantasia con cui, partendo dalla vita reale, ne ricavava un insegnamento educativo, facendo risultare quanto passa nelle nostre relazioni umane di tutti i giorni: astuzia, inganno, verità, stoltezza, superbia, presunzione, opportunismo, conformismo… Tornavo, nei giorni scorsi, nei luoghi della mia infanzia, sui monti Lessini, quelli che fanno da cornice e corona all’aristocratica romanità di Verona. Scomparsi i sentieri, interrotte e prosciugate le condotte delle sorgenti che un tempo portavano acqua cristalli-na alle contrade. Spariti i prati che un tempo davano il fieno per le poche vacche che nelle stalle erano compagne di infreddolite serate d’inverno. Tutto questo seppellito da sconfinati boschi ormai impraticabili. Una coltre omogenea, che, a socchiudere gli occhi, lascia passare l’idea di una coperta stesa per misericordia, a nascondere le ferite dell’abbandono. Un bosco, tutto più o meno della stessa altezza, se non fosse per l’eccezione di qualche albero che, facendosi largo, con la supponenza di un presidente, sembra guardare dall’alto l’anonimato della folla ai suoi piedi. Poi, su tutto, un silenzio, che non incute rispetto, ma piuttosto timore. Cosa passa lì sotto, oltre al grufolare dei cinghiali, agli assalti letali del lupo e al sacrificio dei più deboli, in balia dell’arroganza predatoria?
Questa era la terra che passava davanti ai miei occhi e questa era la scena che avrei voluto consegnare ad Esopo perché ne facesse una favola moderna, una storia pedagogica, ad uso del nostro tempo. Una metafora per raccontare l’indifferenza di un bosco che cresce dove tutti siamo omologati al basso, dove la violenza è spesso l’unica carta che si gioca nelle relazioni, senza più voglia e coraggio di mettere in gioco doni e diversità, disponibilità e passione civica, lasciando all’orgoglio di qualche albero solitario, di svettare in alto, convinto d’essere la salvezza della foresta. Una stagione di inquietudini, nell’attesa di qualcuno capace ancora di aprire sentieri per far parlare gli alberi e ammirare il loro protagonismo.