Dichiarazioni sinodali da precisare meglio per evitare malintesi
In punta di spillo, rubrica a cura di Bruno Fasani
È bastato che uscissero sui media le prime dichiarazioni del Sinodo, conclusosi la scorsa settimana a Roma, perché qualche cattolico dichiarasse pubblicamente sui social di voler mettere fine alla destinazione dell’8 per mille a favore della Chiesa. Cos’era che aveva urtato la sensibilità di quei cristiani? Esattamente la proposta fatta alla Cei di «sostenere con la preghiera e la riflessione le giornate suggerite dalla società civile per contrastare ogni forma di violenza e manifestare prossimità verso chi è ferito e discriminato. (Ossia giornate contro la violenza di genere, la pedofilia, il bullismo, il femminicidio, l’omofobia, transfobia, ecc.)». A questo andava poi aggiunto l’invito a impegnarsi, da parte degli ambienti ecclesiali «a promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento delle persone omoaffettive, transgender, così come dei loro genitori, che giù appartengono alla comunità cristiana».
Tanto è bastato perché su alcuni media apparissero dichiarazioni scandalizzate, del tipo: «Ora la Chiesa sponsorizza il Gay Pride», «La Chiesa ha fatto propria la cultura woke», «Il Vaticano con il Gay Pride»… Titoli provocatori per sollevare quel pizzico di scandalismo che, se proprio non serve ad informare, aiuta di sicuro a vendere qualche copia in più e comunque a scatenare la polemica. La realtà è un tantino diversa, anche se va detto che qualche precisazione andrà fatta da parte dei Vescovi, per evitare inutili equivoci e fraintendimenti. Equivoci di cui sembra essersi reso conto lo stesso episcopato. Il Presidente del Comitato nazionale del Cammino Sinodale, il saggio ed equilibrato mons. Erio Castellucci, vescovo di Modena e Carpi, ha precisato che con queste affermazioni la Chiesa non si presta ad essere arruolata nell’organizzazione o nel sostegno dei Gay Pride, che spesso scandalizzano per le volgari provocazioni che mettono in scena, quanto a lasciarsi coinvolgere in quelle giornate a carattere internazionale che servono a riconoscere la dignità di tutte quelle persone, cui spesso vengono negati diritti e rispetto. Suggerimento evangelico per non lasciare nessuno lungo la strada, spesso a leccarsi le ferite causate dalla società del rifiuto e dell’intolleranza. Una Chiesa inclusiva, dunque, chiamata a recuperare secoli di incomprensioni e di letture moralistiche che hanno finito per cristallizzare le condizioni incolpevoli in cui uno viene al mondo come situazioni di peccato e di esclusione ecclesiale e sociale.
Tutto bene dunque, come punto di partenza, però da integrare con percorsi ecclesiali in cui siano messi al centro, con maggiore attenzione, l’identità e il ruolo della famiglia. A dirlo sono gli stessi membri dell’episcopato. A cominciare dal vescovo di Sulmona, monsignor Antonio Fusco, il quale nota come una vera carenza, nelle dichiarazioni sinodali, sia proprio quella sulla famiglia. «Famiglia di cui si parla ben poco. C’è una grande attenzione e fa molto notizia la riflessione sulle situazioni di sofferenza, ma bisogna puntare su ciò che rende solida una comunità. La famiglia è e resta il nucleo dell’azione pastorale». Sono parole sue. Sulla stessa linea il cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, il quale ricorda che, prima di tutto, «bisogna ripensare l’iniziazione cristiana, l’educazione alla fede e alla formazione, per ridare senso, speranza e voglia di fare».






