I ragazzi e la fede, una crisi che domanda risposte convincenti
In punta di spillo, rubrica a cura di Bruno Fasani
La prima generazione incredula era il titolo, tanto provocatorio quanto realistico, di un libro di Armando Matteo in cui si analizzava l’abbandono della Chiesa da parte delle nuove generazioni. Un dato sotto gli occhi di tutti e non solo del clero. Un problema che, a ricaduta, pone molti interrogativi sul piano pastorale. A cominciare da quale sia effettivamente l’età più idonea per amministrare il sacramento della Confermazione, considerato che, quasi sempre e per la stragrande maggioranza dei ragazzi, essa coincide con l’inizio del rifiuto della pratica religiosa. La festa del ciao, l’ha chiamata qualcuno, ma sarebbe più corretto chiamarla la festa dell’addio. Su questo fenomeno si sono espresse le analisi più disparate, a cominciare da valutazioni moralistiche, battendo il petto altrui per scaricare la coscienza dalle proprie responsabilità. I primi a finire sulla graticola sono ovviamente i genitori, accusati di indifferenza religiosa e quindi colpevoli di aver dato i sacramenti alla stessa stregua di un ticket da pagare lungo il percorso anagrafico, a scadenze prefissate. Niente a vedere con la fede che dovrebbe essere l’educazione profonda della coscienza dei ragazzi a leggere la vita e la storia con gli occhiali del Vangelo. Eppure sarebbe ingeneroso scaricare, ancora una volta, il peso sulle spalle dei genitori. Sono essi stessi vittime di una cultura che, inevitabilmente porta fuori dai binari della fede.
Gli antichi greci, dalla cui filosofia dovremmo ancora attingere a piene mani, sostenevano che nella vita è fondamentale il telos, cioè avere un fine, uno scopo, un obiettivo, una meta verso cui dirigersi, ossia un quadro di valori di riferimento cui ispirarsi. Credo che stia qui la prima causa dell’abbandono della fede da parte dei ragazzi, abituati a concepire la vita come un flusso di desideri individuali, spesso in conflitto tra loro, dove l’unico obiettivo da conservare è quello della libertà, giusto perché ognuno possa fare quello che gli pare e piace. Ma c’è una seconda ragione importante che spiega l’abbandono dei ragazzi ed è legata al fatto che oggi la parrocchia non è più il primo luogo di socializzazione. Ricordo la mia esperienza lontana di giovane curato quando tutti gli adolescenti facevano riferimento per i loro incontri agli spazi parrocchiali. Era sempre la fede che li portava a incontrarsi? Certamente no, ma la frequentazione assidua finiva per forgiare il loro sentire portando a maturazione i semi acerbi della loro spiritualità. Oggi la mobilità, la molteplicità degli interessi e, non di rado, la solitudine davanti a un computer, spingono i ragazzi a riunirsi sotto diversi ed eterogenei campanili, dove quasi sempre Dio è escluso dagli interessi reali. Diventa allora necessario interrogarsi su come tornare a rendere piacevole lo stare insieme nelle nostre comunità, prima ancora di pensare alle nostre liturgie e alle omelie capaci di aiutare a crescere e a non sbadigliare. Ed è ovvio che non si tratta di ripensarci come una sorta di Gardaland per giovani in vena di divertimento, quanto di creare le condizioni perché la piacevolezza di rapporti umani veri e iniziative intelligenti facciano percepire quanto l’ispirazione evangelica sia un servizio alla vita vera.




