A scuola più che di sesso é importante insegnare come volere bene
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Nell’accumulo di libri che ho per casa conservo ancora alcuni sussidi, voluti dal governo italiano, in cui si davano precise indicazioni su quella che avrebbe dovuto diventare l’educazione sessuale nella scuola. Un’iniziativa che costò un occhio della testa perché ogni bambino che andava a scuola in Italia, dalla materna in avanti, doveva avere in mano il suo libriccino, senza tralasciare i vari sussidi predisposti per il personale docente. Una montagna di carta stampata, poi finita al macero come i banchi con le rotelle. Era partita la guerra di liberazione, almeno così si pensava, e le… armi erano pronte e spianate. Non ricordo più l’anno esatto. Forse il 2018 quando l’Unesco sentenziò che «l’educazione sessuale nelle scuole avrebbe consentito ai bambini e ai ragazzi di realizzarsi nel rispetto della loro salute, del loro benessere e della loro dignità». O forse era ancora prima, il 2010, quando l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva raccomandato che l’indottrinamento iniziasse «fin dalla più tenera età». Se non ricordo l’anno, ricordo esattamente i contenuti di quei fascicoli.
Furono momenti di disorientamento per famiglie, maestri, professori e per tutti coloro che avevano conservato un filo di buonsenso. Quello che emergeva da quella bibbia del sesso era l’invito pressante all’autoerotismo. A cominciare dalla scuola materna. Già a partire dai tre, quattro anni si doveva insegnare da dove veniva il piacere. Una pratica indotta, quando ancora i bambini non hanno percezione e coscienza della sessualità e delle sue finalità. Ricordo nitidamente come si parlasse di non far giocare i ragazzi con le automobiline e il pallone e lo stesso le ragazze con le bambole. Non si dovevano far fare ai maschi attività considerate da uomini e altrettanto per le femmine. Si davano tutti i consigli possibili a quanti, non sentendosi a proprio agio col sesso che si erano ritrovati in dote da madre natura, avessero deciso di cambiar sesso. L’avevano battezzata educazione sessuale, ma il solo obiettivo era quello di sdoganare quella cultura Woke che veniva dall’America e che ha fatto della Babele sessuale una bandiera di modernità.
In questi giorni, il ministro della Pubblica Istruzione ha cercato di illustrare un disegno di legge sull’educazione all’affettività. Escluse le materne e le elementari, proponeva di iniziare dalle medie e solo per gli alunni che avessero avuto il consenso dei genitori, ma da subito la proposta ha scatenato uno scontro violento tra maggioranza e opposizione, degno di una repubblica delle banane. Forse a dicembre riprenderanno l’analisi del testo, ma il timore è che tutto finisca in vacca ancora una volta. Eppure l’intuizione di parlare di affettività più che di sesso sembrava una scelta originale e di sicuro valore pedagogico. Oggi i ragazzi hanno una tale dimestichezza con la pornografi a che trovano su internet, da spingere i legislatori a cercare di arginarne loro l’accesso. A scuola saranno le ore di scienze a spiegare il mistero di come inizia la vita, per il resto è il cuore dei ragazzi che va aiutato a capire cosa vuol dire amare. La sessualità non va confusa con la genitalità. Di quella si sa anche troppo. Quello che non si sa è cosa sia volere bene. Su questa materia il mondo è pieno di analfabeti.




