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    Tecnologie
    Pubblicato il Marzo 9, 2021

    Attenti al “furto” dell’attenzione

    Come abitare un mondo sempre più social senza perderci in umanità, creatività e concentrazione?

    “Una parrocchia su due utilizza Whatsapp, Telegram, le email o Facebook per mantenere e creare relazioni nella comunità parrocchiale”

    Dal numero di Notizie del 14 Febbraio 2021, parte 1 di 6.

    di Alessandro Cattini

     

    Nei giorni in cui fa notizia l’assenza di Mario Draghi da tutti i social network sembra chiaro che la ragione di questo scalpore è che pochi riescono ancora a immaginare la propria vita senza queste piattaforme. Secondo un rapporto Istat anteriore alla pandemia, nel 2019 il 76,1% delle famiglie italiane disponeva di una connessione a Internet, mentre a livello globale Facebook raggiungeva i 2,38 miliardi di utenti. Già nel 2014, l’86,5% dei giovani italiani di età compresa tra i 16 e i 24 anni era attivo sui social network e, nel 2016, il tempo che questi ultimi passavano su Internet era in media di 3,67 ore al giorno (cfr ourworldindata.org/internet).

    Queste statistiche faticano a stare al passo con un fenomeno la cui crescita è spesso esponenziale, ma corroborano una sensazione che in molti condividerebbero: si è sempre più connessi e si passa una quota sempre maggiore del proprio tempo di fronte agli schermi. Anche per coltivare la fede.

    Inizio di un percorso

    A causa della pandemia, anche le parrocchie sono più presenti su Internet e in particolare sui social. “Una parrocchia su due utilizza con regolarità WhatsApp e Telegram (il 56%), la mail (il 54%) e una pagina Facebook (il 50%) per mantenere i contatti e creare relazione nella comunità parrocchiale”, ha scritto qualche settimana fa Enrico Lenzi sul quotidiano Avvenire, riprendendo l’ultima ricerca effettuata dall’Università Cattolica di Milano. Pertanto, la pervasività di Internet nella vita quotidiana è un fenomeno che riguarda tutti. Anche se non si frequenta in prima persona il mondo virtuale, infatti, è probabile che qualcuna delle persone a noi vicine lo faccia e sia soggetta agli effetti di una fruizione abituale e/o prolungata di smartphone, email, social network, eccetera…

    Con questa serie di articoli proveremo a esplorare alcuni dei problemi che una costante immersione in un oceano di impulsi virtuali può causare alla nostra mente e alla società. Lo faremo prendendo come punto di riferimento il lavoro del Center for Humane Technology (CHT, humanetech.com), un ente non profit statunitense impegnato nell’educazione del pubblico su come rendere più sostenibili e umane le interazioni coltivate attraverso le reti digitali, proponendo anche soluzioni pratiche.

    Problema n°1: ogni notifica è un allarme

    Per approcciare il primo problema di questa serie, immaginiamo una scena di vita quotidiana: lo smartphone è appoggiato sulla scrivania, di fianco al computer, magari con lo schermo rivolto verso il basso per non essere di disturbo mentre si lavora. Oppure è sulla mensola a lato del piano cottura, mentre si cucina la cena. Poi una vibrazione improvvisa. La suoneria di un nuovo messaggio. È quasi impossibile resistere. O ancora capita di pensare: “che ore sono?” La domanda ha appena preso forma nella coscienza, ma la mano si è già allungata verso il telefono. Lo schermo di accende e, in bella vista appaiono tanti numeri stampati su piccoli pallini rossi. 3 email non lette, 9 messaggi Whatsapp, 2 notifiche su Facebook.

    Trasmettono una sensazione di disordine, di incompletezza, di allarme; ma allo stesso tempo attraggono e seducono. Alcuni studi sostengono che il nostro cervello si sia evoluto in modo da associare a ogni colore significati ed emozioni specifiche. Il rosso, per esempio, è il colore dello “stop” ai semafori, del fuoco, del sangue, della passione, e significherebbe quasi sempre: “Attenzione! Guarda qui e concentrati perché a momenti potrebbe succedere qualcosa di pericoloso, di eccitante, di importante”.

    Quando la nostra concentrazione viene carpita dalle notifiche che galleggiano sullo schermo, inevitabilmente viene “rubata” a quello che si stava facendo in precedenza. A volte è utile, se si tratta di una vera emergenza. Ma quante delle volte in cui sentiamo vibrare la tasca dei jeans il motivo è effettivamente questo?

    Effetti collaterali: la perdita della concentrazione

    La capacità di pensare, di concentrarsi, di risolvere problemi in modo efficiente e di dedicare attenzione ai bisogni altrui sono influenzati dalle costanti interruzioni che la tecnologia introduce nella nostra routine. Il cervello, infatti, è in grado di eseguire solo certi compiti in “multitasking”, come guidare l’automobile mentre si ascolta un programma radiofonico. Ma attività che richiedono uguali sforzi cognitivi, non possono essere sovrapposte (Kahneman, Pensieri lenti e veloci, 2012). O mi concentro sull’articolo che sto scrivendo, o finisco di rispondere a un’email. Non posso completare il primo mentre penso a come scusarmi con quel compagno del liceo per non essermi fatto vivo per così tanto tempo. Quando mi concentro su una cosa, è indispensabile che io tolga attenzione a un’altra.

    Alex Soojung-Kim Pang, nel suo libro “Dipendenza digitale. Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia”, scrive che l’americano medio dedica circa un’ora al giorno a gestire le distrazioni “da tecnologia” e a ritrovare poi la concentrazione. 5 settimane ogni anno impiegate solo per chiedersi: “Dunque, che cosa stavo facendo?” Tuttavia, non è sempre necessario “toccare” lo smartphone per distrarsi dal lavoro che si sta facendo. Uno studio del Journal of the Association for Consumer Research ha dimostrato che anche la semplice vicinanza di un telefono spento e con lo schermo rivolto verso il basso assorbe la nostra attenzione, riducendo la memoria legata a ciò che si sta facendo e la capacità di risolvere nuovi problemi. La buona notizia? Lo studio mostra anche che la situazione migliora signifi cativamente se lasciamo il telefono in una stanza diversa da quella in cui stiamo lavorando.

    Come venirne fuori

    Il CHT suggerisce anche un altro paio di semplici azioni per ovviare a questo furto di attenzione perpetrato a ripetizione dalla tecnologia. Spegnere tutte le notifiche generate automaticamente dalle app può essere un buon primo passo. Ci riferiamo a quelle che di solito hanno questa forma: “Tizio ha appena postato una nuova foto”; “Potrebbe interessarti…”; “Fai le congratulazioni a Caio per il suo nuovo lavoro!”. Dietro questi messaggi non ci sono persone reali che hanno bisogno di noi, ma algoritmi che cercano di indurci a dedicare più tempo ai social per avere più occasioni di proporci nuove inserzioni pubblicitarie.

    Quando le vediamo apparire a schermo, l’istinto di cliccare è molto forte. Meglio disattivarle nel menù delle Impostazioni dello smartphone, mantenendo attive solo le notifiche “prodotte” da persone in carne e ossa, come quelle dei messaggi di testo.

    Un’altra buona idea è quella di impostare di tanto in tanto lo schermo del telefono in modalità “bianco e nero”. L’assenza dei colori che mettono “in allarme” il nostro cervello ridurrà la tentazione di aprire Whatsapp a ogni nuova notifica. Uno smartphone in scala di grigi sarà di certo un po’ più deprimente, ma ci guadagneremo in concentrazione e, dopo aver bloccato di nuovo lo schermo dopo 30 minuti “persi” a guardare le foto di sconosciuti, non saremo ancora lì a chiederci: “Ma che ore sono?”

    Continua…

    Leggi ora la parte 2: Ogni smartphone è una slot machine.

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