«Pace a voi»
Commento al Vangelo di don Carlo Bellini - Domenica 11 aprile
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Commento
Ascoltiamo nel vangelo di questa domenica uno dei racconti di apparizione più famosi. Gli apostoli sono ancora chiusi in casa per la paura e Gesù si rende presente in mezzo a loro. Il saluto di Gesù è «pace a voi» e lo ripeterà varie volte nel brano. Gli ebrei erano soliti salutarsi scambiandosi la pace ma nei brani delle apparizioni la pace, shalom, è molto più che un saluto. Gesù non si limita ad augurare la pace ma la dona come aveva detto durante l’ultima cena: «vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27). La sua pace è totalità di verità, giustizia e amore, frutto di una piena comunione con Dio. San Paolo dirà che Gesù «è la nostra pace» (Efesini 2,14).
Stette (in mezzo): il verbo greco indica “stare in piedi“ e viene usato dall’evangelista Giovanni per indicare Gesù risorto che si rende presente (in Gv 20,14.19.26 e Gv 21,4 ma anche in Lc 24,36). Ricordiamo anche Mt 18,20 «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».
Ciò che cerchiamo per noi stessi, per la nostra famiglia, per il mondo è racchiuso nella pace che il risorto ci vuole donare. Al fondo dei nostri desideri c’è un desiderio di pace che però non consiste in una tranquilla stabilità ma in un coraggioso continuo divenire, un viaggio, che va incontro a nuove sfide con la fiducia di poterle affrontare. Sentire il saluto ripetuto di Gesù ci rincuora e ci incoraggia a sperare che i fallimenti e le fatiche nelle relazioni non siano un destino insuperabile. Sappiamo quale grande sfida sia per il mondo di oggi continuare a credere nella pace e mettere in atto azioni per costruirla. Scopriamo nel vangelo di oggi che la pace è dono di Dio e che dunque qualsiasi tentativo di costruirla è immerso nella Grazia che viene dall’Alto, azione contemporaneamente umana e divina; ricordiamo che Gesù proclamò beati gli operatori di pace, forse proprio perché, come figli di Dio, vivono dei suoi doni.
Lo scambio della pace che viviamo ogni domenica nella liturgia è un gesto carico della densità di tutti questi riferimenti che non dobbiamo mai ridurre a un cortese saluto ai nostri vicini. La pace così intesa è una delle chiavi di lettura più belle del messaggio di Gesù e del cristianesimo, una di quelle che il mondo di oggi capisce. I discepoli porteranno questa pace nella missione che subito dopo Gesù gli affida: andare nel mondo ad annunciare ciò che hanno visto, testimoniare la salvezza e farlo in comunione con Gesù, tanto che il loro perdono dei peccati sarà efficace.
In questo momento il Risorto dona il suo Spirito: è la Pentecoste dell’evangelista Giovanni. Gesù soffia il suo Spirito e in Gen 2,7 troviamo lo stesso verbo per esprimere il gesto con cui Dio manda il suo Spirito di vita su Adamo. Gli apostoli diventano uomini nuovi, anzi quasi un nuovo tipo di uomo. Se possono compiere la loro missione è perché lo Spirito che hanno ricevuto renderà testimonianza in loro, come Gesù aveva promesso in Gv 15, 26-27: «quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio».
Apparizione: le apparizioni del Risorto sono descritte nei testi più antichi con forme del verbo “vedere”, in particolare apparve, si fece vedere (in greco ophthe) e mantengono un’ineliminabile componente visuale, cioè non possono mai essere ridotte a un’esperienza solo mentale.
Tutto questo suscita gioia ed entusiasmo nei discepoli. Ma il racconto continua introducendo l’episodio curioso di Tommaso che, essendo assente, si rifiuta di credere o meglio chiede di poter verificare personalmente. L’incredulità di Tommaso si presta a diverse riflessioni. Tommaso vuole vedere, non gli basta la testimonianza dei suoi amici. Gesù dirà beati tutti quelli che crederanno senza avere visto, cioè tutti coloro che come noi credono per una testimonianza ininterrotta di generazioni di cristiani e come Giovanni, il discepolo amato, sono mossi da un amore che apre il cuore a credere.
Tuttavia anche l’esigenza di Tommaso merita di essere considerata con attenzione. Tommaso vuole vedere le ferite di Gesù risorto, cioè vuole essere sicuro che il Risorto ha sul corpo i segni di colui che è morto in croce per amore. Non gli può bastare un Gesù risorto e guarito che ha dimenticato il suo passato. Tommaso non vuole vedere cicatrici. Le ferite aperte sono la garanzia che chi appare è lo stesso Gesù morto in croce e che dunque quella storia fatta di amore e amicizia può continuare.