Il grande insegnamento di Seid, un italiano di colore che ha scelto di morire
di Bruno Fasani
Si dice, parlando delle persone più sensibili e intellettualmente dotate, che siano come le foglie più in alto sui rami. Sono le prime a vedere il sole, a ubriacarsi di luce, ma anche le prime a sentire lo sferzare del vento, le raffiche di pioggia e la violenza delle intemperie. Seid Visin era indubbiamente una foglia che stava in alto. Di lui ricordano l’intelligenza sopra la media, una sensibilità fuori dal comune, un fisico geneticamente dotato per farne un grande campione sportivo. Nato in Etiopia 21 anni fa, era stato adottato da una famiglia italiana quando aveva sette anni. Una famiglia solida e rassicurante, ma non suffi ciente a farlo guarire dal male di vivere che si portava dentro. Un virus che veniva da lontano, dagli anfratti di ciò che chiamiamo destino e che segnano la storia di una creatura. E così Seid ha voluto uscire di scena, scegliendo la morte fisica, meno dura di quella psicologica che consuma dentro.
Anche se il padre ha tenuto a precisare che il suicidio non è affatto riconducibile a episodi di razzismo, ha fatto scalpore la riflessione che Seid, due anni fa, aveva messo nero su bianco parlando del disagio delle persone di colore. «Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera…
Così dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato…».
Su queste parole si è scatenato il moralismo sconcio dei partiti, tutti, pronti a farne carne di porco, pur di portare a casa qualche voto, imbellettandosi la faccia e accusandosi reciprocamente per sgravare la coscienza. Non ho nessuna intenzione di unirmi al coro ipocrita dei moralisti. Seid è lucidissimo nell’indicare la genesi del razzismo che lui respira intorno: “Prima di questo grande flusso migratorio tutti mi amavano” e ancora: “come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato”. È da queste parole che bisogna partire, se si vuol capire cosa voleva dirci questa acuta e triste creatura. Perché è dietro queste parole che si vede l’intolleranza di certa Destra, pronta a vedere negli immigrati i ruba pane agli italiani, ma anche il buonismo ipocrita di certa Sinistra che a parole dice di accoglierli, lasciandoli poi sulle strade a vivere di fame e di espedienti.
È lucidamente realista Seid nel dire ciò che dice, mentre penso che dal cuore degli italiani sparirà l’intolleranza quando la politica tornerà a gestire queste persone, mettendole in condizione di dimostrare nei fatti la grandezza delle loro menti, del loro cuore e delle loro mani. Togliendole da un disagio, che diventa inevitabilmente il disagio della gente.