Matrimoni forzati. Si uniscano le forze tra comunità religiose
La questione è riemersa con forza dopo la scomparsa di Saman Abbas
di Irene Ciambezi
Sono troppe le neomaggiorenni che rischiano di scomparire o di essere forzatamente riportate in patria per matrimoni forzati decisi tra famiglie, senza il loro consenso. La drammatica vicenda di Saman Abbas, giovane pakistana scomparsa nel reggiano, è oggi al centro di una eco mediatica che in passato ha trascurato il fenomeno. Ma non deve essere lo scoop a muovere la sensibilizzazione su un fenomeno, quello dei matrimoni forzati, che coinvolge da tempo anche l’Europa. Esperti di Germania, Francia e Regno Unito da tempo denunciano le violenze invisibili vissute da giovani donne – oltre il 20% per lo più provenienti da India, Bangladesh, Pakistan, Marocco e Tunisia – destinate a cugini o altri uomini scelti dalla rete parentale secondo la pratica dei matrimoni forzati. Pratica che va oltre le frontiere di religione e di appartenenza etnica e anche oltre le barriere di classe o di casta.
L’età delle vittime va dai 13 ai 30 anni. Le vittime sono soggette ad abusi da parte dei familiari, dei parenti d’origine o acquisiti, dei fidanzati imposti. La pressione può venire tanto dalla famiglia quanto dall’intera “comunità” a cui la famiglia sente di appartenere e di dovere dare conto, in Italia o all’estero, e le fa vivere in allarme e con un costante senso di colpa. È su di loro infatti che poggia interamente “l’onore” della famiglia e a volte quello dell’intera comunità. Queste giovani donne vengono fatte sposare per procura o dietro pagamento di una dote, in uno scambio denaro/ proprietà. Vi sono giovani e giovanissime costrette a sposare uomini molto più grandi o comunque non accettati, con lo scopo di elevare lo status sociale della famiglia o talvolta per sbarazzarsi di ragazze giudicate troppo ribelli. Tutto in nome dell’onore familiare.
Tuttavia un segnale di cambiamento e di confronto sui valori comuni e i diritti fondamentali viene dall’Unione delle Comunità islamiche d’Italia (UCOII). Un gesto importantissimo la fatwa contro i matrimoni forzati, promessa lo scorso 3 giugno da Yassine Lafram Presidente dell’UCOII. La fatwa è un parere religioso, una spiegazione che trova le basi nel Corano e nella tradizione profetica dell’islam “emessa in casi di gravità assoluta e la vicenda di Saman rientra tra questi” come ha spiegato di recente Lafram in un’intervista al quotidiano Avvenire, “emetteremo una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l’altrettanto tribale usanza dell’infibulazione femminile”. Storica fu già la fatwa emessa dall’Università islamica di al-Azhar nel 2005 contro l’infibulazione e quella del 2019 firmata a Dakar, al primo summit africano per la fine delle mutilazioni genitali e dei matrimoni precoci, iniziativa promossa da Jaha Mapenzi Dukureh, coraggiosa attivista gambiana sopravvissuta alla pratica delle spose bambine.
Ma il caso di Saman Abbas non è un caso isolato. Anche nel nostro territorio già altre giovani sono state forzate a rientrare in Pakistan pena la vita. E non solo pakistane. Una giovane donna turca con la sua piccola chiede aiuto durante il primo lockdown per un episodio di maltrattamento e nel corso dei colloqui di mediazione interculturale per ricostruire la vicenda, emerge che era stata indotta al matrimonio con il nipote di un vicino di casa dei familiari che l’ha poi portata in Italia dove lavorava. Così pure il caso di Miriam, la giovane donna del Marocco salvata alcuni anni fa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII e trasferita con la sua bambina in un appartamento ad indirizzo segreto. Il marito aveva anche tentato durante un viaggio nel paese di origine di trattenere la bimba in Marocco senza il consenso della madre (in termini di diritto: sottrazione internazionale di minore). Per questa mamma è stata preziosa la rete musulmana e cattolica creatasi intorno a lei per proteggerla. Unire le forze in una prospettiva interreligiosa, senza paure e senza ambiguità, è oggi infatti l’unica via da percorrere contro la violenza.