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Il Settimanale, In punta di spillo, Rubriche
Pubblicato il Settembre 15, 2021

Anche attraverso un film la cultura del relativismo si apre tante opportunità

 

Sarà la gente, che andrà a vederlo nelle sale, a decretare se il film “L’événement”, ossia l’evento, vincitore della Mostra del cinema di Venezia, sia anche il più meritevole tra quelli presentati. Gli spifferi del malcontento ci raccontano di un’opinione diversa da parte della giuria, sicuramente del suo presidente, il quale si era apertamente espresso a favore del film italiano di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”. Cosa abbia orientato la giuria a metterlo al secondo posto e chi abbia spinto per questa scelta rimarrà probabilmente nascosto nelle pieghe delle conversazioni degli esperti.

Alla fine, l’impressione è che, ancora una volta, abbia prevalso il politicamente corretto. È ormai da tempo che le manifestazioni cinematografi che più importanti, Venezia, Cannes e Berlino, scelgono di premiare quello che l’opinione pubblica e la politica si aspettano che si dica, per indirizzare il sentire della gente.

L’evento di cui si parla nel film vincitore è ambientato in Francia negli anni Sessanta. La giovane regista, Audrey Diwan, racconta di una adolescente che rimane incinta. Un “incidente” che rischia di compromettere il suo futuro, ma che lei decide con tutte le sue forze di ovviare. Del resto, quelli sono anni difficili per chi aspetta un figlio fuori dal matrimonio. Alle spalle c’è la riprovazione morale, il disagio di un figlio senza famiglia e, soprattutto, come nel caso raccontato, la paura di dover interrompere speranze di carriera.

La tenacia con cui l’adolescente del racconto persegue l’obiettivo di liberarsi del figlio che aspetta, ricorrendo a pratiche brutali, vuol essere così l’inno a una presunta libertà, spinta fino a mettere in secondo piano la vita in grembo.

Mi chiedo quale intenzione pedagogica stia dietro a questo film. Non è facile rispondere, anche se un po’ di malizia porterebbe a dipingere vari scenari. Paura davanti al mondo dei medici che in numero sempre crescente si dichiarano obiettori di coscienza rispetto all’aborto? Paura di una certa politica che è tornata a parlare di figli, come unica garanzia di futuro, e che potrebbe essere considerata limitativa della libertà della donna? Timore per frammenti di spiritualità che hanno cominciato a circolare, condizionando a favore della vita la coscienza delle persone? O più semplicemente per affermare che il principio che sta a fondamento delle democrazie moderne è solo la libertà e la tutela dei diritti che da essa scaturiscono?

È palese che oggi si confrontano due diverse concezioni di democrazia. La prima, decisamente in disgrazia, almeno in Europa e nell’Occidente, è quella che la considera come la custode del diritto e del bene in generale. Ossia un contenitore dove la verità del bene, comunemente riconosciuto, diventa la misura delle libertà soggettive, evitando che il proprio punto di vista e il proprio desiderio si trasformino in violenza verso gli altri o qualcuno. Sopprimere una vita è comunque la si giri una forma di violenza.

Dall’altra parte il concetto di democrazia oggi emergente è quello che parte dal principio che il bene è il punto di vista di qualcuno o di qualche gruppo, a partire dalla Chiesa, ma non della totalità. I valori non sono più considerati veri perché a servizio del bene delle persone, ma punti di vista soggettivi, che farebbero da preludio all’intolleranza e all’antidemocraticità.

Siamo al relativismo, dove tutti reclamano il tutto possibile. In questo orizzonte la democrazia non è più la custode del bene, definita dai contenuti che la ispirano, ma soltanto l’esercizio formale di maggioranze che, di volta in volta, decidono cosa va e cosa non va. E così, le decisioni delle maggioranze, tante come i colori della politica, prendono progressivamente il posto della verità. Libertà per alcuni. Non sempre per i più deboli e indifesi.

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