La scienza non è tutto
L’idea alla base di tanti dogmi del pensiero moderno è la convinzione che l’unica conoscenza certa sia quella propria delle scienze sperimentali. In realtà non è così: lo dimostra anche il fatto che la stessa certezza delle scienze sperimentali si fonda su di un sapere non dimostrabile sperimentalmente. Infatti, ci si può chiedere: su quali basi scientifiche si fonda la certezza attribuita alle affermazioni delle scienze sperimentali? Quali sono i dati di natura sensibile a partire dai quali è possibile dimostrare, seguendo il metodo scientifico insegnato da Galileo, che tali affermazioni sono vere? E se si esclude, come non scientifico, il concetto di verità, perché si dovrebbe accettare come vero (e quindi come una verità) ciò che la scienza afferma?
Certamente, la scienza può escludere come non accettabile e puramente soggettivo ciò che la filosofia o la teologia dicono quando si intromettono in un campo che non è il loro; ma anche le scienze non possono esprimere giudizi su realtà che esulano completamente dalle loro competenze. Il concetto di verità, il valore dei nostri giudizi e tutto quanto appartiene alla logica e alla natura del pensiero umano, non sono di natura materiale sensibile, ma appartengono a quell’ambito della conoscenza che da 2500 anni si chiama filosofia.
Tra scienza in senso moderno e filosofia c’è un rapporto necessario e una legittima indipendenza in ragione del metodo proprio di ognuna. Tuttavia, occorre riconoscere una differenza: la filosofia può e deve giudicare la natura e il valore della scienza (è quel ramo della filosofia che si chiama epistemologia), mentre la scienza non può giudicare la filosofia; a meno che, contraddicendosi, si metta a fare anch’essa filosofia. (E questo può accadere facilmente, perché in qualche modo filosofi lo siamo tutti; mentre scienziato lo è appena qualcuno).
Si è soliti dire che ogni conoscenza vera deve basarsi sulla esperienza. Questo è vero. Già Aristotele aveva detto che “nulla c’è nell’intelletto che non sia passato attraverso i sensi”. Più tardi, però, san Tommaso ha aggiunto con ragione, “se non l’intelletto stesso”. In altre parole, è vero che ogni conoscenza ha il suo punto di partenza nella percezione sensibile di un qualunque oggetto, ma nello stesso tempo, e non in un momento successivo, tutto il processo conoscitivo è percepito senza possibilità di errore dal soggetto conoscente in virtù della sua coscienza. Quindi, assieme all’esperienza sensibile c’è un’altra forma di esperienza, di natura non sensibile: una esperienza che l’uomo, essere intelligente, rende esplicita ed evidente in un momento successivo attraverso la rifl essione su se stesso.
La coscienza, come dice la parola stessa, è un cumscire, un conoscere implicito in ogni atto di conoscenza. In ogni atto conoscitivo il soggetto coglie un oggetto, che a lui si oppone e si distingue; ma allo stesso tempo coglie anche il proprio atto e se stesso in quanto soggetto di questo atto. Non c’è nessuno che conoscendo una qualsiasi cosa non sappia che sta conoscendo quanto conosce e che è lui stesso a conoscerlo. Ogni vera riflessione filosofica nasce proprio da questa esperienza: io so che sto pensando; io so che sono io che sta pensando. Il pensare e l’io che pensa non sono di natura materiale sensibile. A meno che si voglia ridurre l’uomo al suo cervello.
Purtroppo, è proprio questa visione dell’uomo, ridotto alla sua dimensione esclusivamente bio-psichica, che è alla base dei dogmi che ho denunciato nell’articolo precedente. Però, se si vuole essere coerenti, se ne devono trarre molte conseguenze. Anzitutto, ci si dovrebbe chiedere: perché ogni persona umana ha il coraggio di definirsi come un io che si contrappone e si distingue da qualunque altro essere? E perché i cosidetti diritti umani sono sempre diritti dell’individuo in quanto persona, e non del cervello?