Gli ultimi degli ultimi
di Don Carlo Bellini
Una provocazione: perché non creare un’associazione per le persone che non trovano risposte dai servizi che dovrebbero aiutali? Sono prete da venticinque anni e ho visto tante persone in difficoltà e tante situazioni che mi hanno fatto riflettere. Un insieme di esperienze e ricordi tra i quali vorrei trarre qualche esempio per aiutare chi legge a comprendere rapidamente di cosa stiamo parlando. Brevi racconti che non lasciano intuire nomi e luoghi precisi ma fatti che hanno dei protagonisti o per meglio dire delle vittime.
Una famiglia che nel giro di pochi mesi deve affrontare un licenziamento, una malattia potenzialmente mortale e malattia invalidante di tre diversi membri della famiglia. Dal Comune fanno sapere di non poter intervenire come sarebbe necessario perché hanno una casa di proprietà e l’indice ISEE alto (anche perché calcolato sui mesi precedenti). La soluzione prospettata: vendere la casa e andare in affitto, a quel punto potrebbero essere aiutati. Quindi indebolire ulteriormente la condizione della famiglia perché se fossero più poveri si possono aiutare di più.
Un signore tunisino, gran lavoratore, in seguito alla crisi economica decide di tornare al suo paese. Torna in Italia dopo un anno con la moglie incinta di otto mesi, una gravidanza difficile, per farla partorire da noi perché si sente più sicuro. Mi dice che vivono in macchina in una strada di campagna, e che i sevizi sociali non possono fare niente perché non ha più la residenza. Con alcuni parrocchiani prendiamo una casa in affitto per alcuni mesi, la signora partorisce, in effetti con qualche complicazione, e dopo due mesi ci salutiamo perché tornano in Tunisia con il piccolo nato.
Una famiglia di giovani del Marocco vive in un appartamento in nero, pagando regolarmente l’affitto perché lavorano e non hanno problemi economici. Appena la signora rivela di essere in attesa di un bambino la padrona di casa (una donna) gli ingiunge di andarsene per paura di essere costretta ad un affitto regolare. Mi vengono a raccontare questa loro vicenda perché i servizi sociali gli hanno detto che non essendo residenti non possono fare niente.
Un uomo cieco e dializzato rimane senza casa e va in ospedale a fare la dialisi con le valige. Il medico mi dice che nelle sue condizioni non può stare fuori neanche una notte e in ospedale non lo possono tenere. I comuni dove ha abitato recentemente da me interrogati rifiutano di occuparsene perché non è residente. (Faccio notare che è possibile concedere la residenza anagrafica per persone senza fissa dimora, come accetterà poi di fare il comune di Modena). Lo ospito a dormire a casa mia.
Un giovane che da tempo vive in strada è ricoverato in ospedale e gli viene diagnosticata l’epilessia. Riceve la prescrizione dei farmaci ma nessuno lo avvisa che per un po’ è bene che non stia da solo e che bisognerà verificare l’andamento della malattia dopo alcuni mesi. Viene dimesso in strada, senza casa e senza cibo, pur conoscendo la sua situazione.
Potrei continuare con altri esempi ma mi rendo conto di risultare forse un po’ sgradevole. D’altra parte il vescovo Erio ce lo ha ricordato proprio in questi giorni che occuparsi dei poveri e stare dalla parte degli ultimi non genera molti consensi ma piuttosto qualche antipatia… Dunque, vado avanti a riflettere, non per trovare dei colpevoli, ma per avviare un confronto rispetto alla gestione di queste situazioni di emergenza che sono sempre più frequenti.
Riconosco l’enorme lavoro di chi si occupa delle persone in difficoltà. Ci sono le leggi e i regolamenti, le risorse sono limitate, il personale è poco. Lo capisco. Capisco anche lo stress di occuparsi tutti i giorni di situazioni diffi cili e di vedere che poco cambia e che a volte anche chi cerchiamo di aiutare ci mette del suo per non uscire dalla sua situazione di precarietà. Capisco che le organizzazioni sono complesse e che un po’ devono tutelarsi, anche dalle denunce e dagli articoli sui giornali. È bello, ed è anche vero, evocare il valore della rete tra soggetti diversi per risolvere i problemi ma nella rete ognuno deve fare la propria parte non sono ammessi spettatori. Aggiungo che anche la Chiesa con i suoi servizi, Caritas e centri di ascolto parrocchiali, consultorio familiare diocesano, altri enti caritativi, in fondo ha le stesse difficoltà: regole, rendicontazioni, personale, stanchezza, ispirazione.
Ecco allora che si invoca il realismo: occorre rassegnarsi che non tutto può avere una soluzione immediata, forse non ora e in certi casi forse mai. Ecco che si fanno strada dei criteri da “territorio di guerra” nel senso che in guerra i medici devono scegliere con quali priorità intervenire privilegiando chi ha qualche speranza di cavarsela. Welfare e sanità stanno forse andando in questa direzione? Carenze di personale e di risorse, aumento della povertà (lo dicono anche le statistiche), un calo nell’ispirazione umanitaria. In questo contesto può saltarci fuori solo chi ha qualcuno vicino, che lo fa uscire dalla invisibilità sociale e all’interno di una relazione interpersonale è capace di offrire una speranza. Allora è proprio necessaria un’associazione di persone che stanno vicino a uomini e donne che non trovano risposte alle loro povertà o si può tentare di cambiare il sistema?
Condividi sui Social