Fuori dall’hype
Ascoltare gli adolescenti e ridire come si fa a stare insieme.
di Giuseppe Bellodi
È come se avessimo finito di contare e dopo il “chi è fuori è fuori e chi è dentro è dentro” ci accorgessimo che nessuno ha la minima intenzione di uscire dal suo posto segreto per andare a fare “tana”. Sembra quasi che il nascondimento sia diventata condizione strutturale del vivere di tanti. Difficile dire se la pandemia sia finita o in quale fase di contagiosità virale sia entrata; molto meno arduo sostenere che ha lasciato segni profondi di insicurezza, di solitudine e disagio nel vivere di ciascuno. Non credo si faccia torto a nessuno dicendo che a pagarne le spese siano stati soprattutto gli adolescenti, ovvero coloro che dopo esser stati invitati alla vita come ad una festa in cui avrebbero conosciuto gente, fatto amicizie e avuto esperienze interessanti poi invece si ritrovano a tornare a casa propria perché qualcosa è andato storto. E ognuno c’è tornato a casa, ma ora ci si è pure rintanato e si è fatto un film diverso di come può essere la festa. Alla clausura in casa per mesi ha fatto seguito una sorta di difficoltà psicologica ad uscire.
La scuola è stato il luogo della socializzazione forzata e, si potrebbe dire con un’iperbole che qualcuno perdonerà, il luogo verso il quale, come gli zombie di Michael Jackson, i corpi scossi di insegnanti e studenti si sono trascinati durante le numerose settimane pandemiche. La scuola è luogo in cui giocoforza ci si è frequentati, ci si è salutati, in cui si sono incrociati gli sguardi sospettosi, si è ricostruita la trama dei vissuti reali, ci si è riappropriati delle chiavi e dei codici di conoscenza della vita. È uno dei luoghi principali in cui siamo chiamati ad esporre i nostri corpi meravigliosi, goffi, impacciati, ingombranti, preziosi, sicuramente feriti. A scuola si è come obbligati a frequentarsi, a farsi carico delle proprie responsabilità senza neanche potersi tanto rifugiare in uno smartphone. Eppure nei colloqui degli insegnanti coi genitori suona come novità – qui lo dico e qui lo nego – il fatto che tanti riferiscano che il figlio o la figlia han voglia di frequentare.
Se questo fosse anche solo in minima parte vero sarebbe un segnale piuttosto forte di una realtà che è cambiata radicalmente dal passato…però, per contro, rileviamo anche il fatto di coloro che non accettano questa sovraesposizione e non riescono a mettersi in gioco, non riescono neanche ad entrare nell’edificio scolastico. I pedagogisti hanno nominato “ritiro sociale” il fenomeno che porta alcuni studenti – schiacciati da ansie, paure, depressione – a non riuscire a frequentare la scuola, a rimanere inchiodati in casa, a non voler uscire dalla propria camera. Alcuni psicologi hanno usato l’espressione “gioventù rubata” per indicare la necessità che i giovani siano in qualche modo risarciti di ciò che in questi ultimi anni è stato loro sottratto. Márquez in “100 anni di solitudine” immaginava che, a un certo punto, nel paese di Macondo la comunità cominciasse a perdere la memoria e – rendendosene conto- ogni abitante si mettesse ad attaccare sugli oggetti e su qualsiasi cosa dei cartellini con il nome di questi oggetti per non perdere definitivamente la coscienza del mondo che ciascuno aveva vissuto. La pandemia ha manomesso i codici delle relazioni personali e dobbiamo pian piano ricrearli. Nel frattempo il film che i ragazzi si son costruiti, attraverso una prassi di ossimori tecnologico-virtuali, è diventato più reale del reale.
Non è difficile cogliere il modo plastico in cui i ragazzi in queste settimane, riprendendo a frequentarsi nel tempo libero, stanno insieme ma ognuno immerso nello schermo del proprio telefonino. Così succede peraltro anche a molti adulti…insomma è come se fossimo lumache post-post-moderne che han bisogno di portarsi ovunque il proprio guscio-rifugio. Forse è un po’ superficiale liquidare questo paradosso con l’idea che i telefonini stiano rovinando tutto. In fondo nei social si vivono relazioni, si cercano relazioni, si consumano relazioni e si costruiscono relazioni; e non necessariamente in modo più superficiale di come avveniva in passato. Le relazioni sono il centro dei bisogni delle preoccupazioni di tutti. Sono al centro di tutte le domande e le ansie che i ragazzi rivolgono agli psicologi degli strafrequentati sportelli di ascolto scolastici. È un bisogno che trova risposte confuse, disordinate. Che si mescola alla frustrazione di non essere abbastanza “popolari” come i social lasciano intendere che sarebbe meglio essere. I Pinguini Tattici Nucleari – molto ascoltati da parecchi preadolescenti – quando cantano “fuori dall’hype” lanciano una specie di richiamo ancestrale a tornare ciò che realmente siamo. A sfuggire alla logica del consenso a tutti i costi. L’hype è il successo delle visualizzazioni dei consensi a tutti costi. “Fuori dall’hype” è un nuovo invito alla vita, ma anche solo la parola “fuori” è già una dimensione da scoprire per riscoprirsi.
Non è semplice; il desiderio di incontrare si mescola a paure, a solitudini e al non sapere come si fa. Gli adulti qualche strumento a disposizione ce l’hanno ma i ragazzi molto meno. Si tratta di educarsi o ri-educarsi. Si tratta di investire sull’educazione di famiglia, di scuola e di strada. Non c’è forse bisogno di Educatori, quasi fratelli maggiori, capaci di ridire ai ragazzi come si fa a stare insieme nella libertà di ciascuno? C’è un “fuori” da vivere, ci sono stelle da tornare a guardare, c’è un modo relazionale di cui abbiam perso memoria. Forse, scomodando anche il Vangelo, si tratta di provare ad “uscire”, di andare al largo e gettare nuove reti o trovare un nuovo modo di creare reti di amicizie. Si tratta di uscire dai nascondigli in cui ci eravamo rintanati e nei quali, in fondo, continuiamo un po’ a campare con la recondita speranza che qualcuno continui a cercarci.