Il gesto inaccettabile del Dalai Lama e il doppiopesismo dei media
In Punta di Spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Detta neta e s’ceta (netta e schietta per chi non è veneto), la foto del Dalai Lama, con la lingua fuori mentre chiede a un bambino di succhiargliela, mi fa schifo. Questione estetica oltre che morale. Mi farebbe schifo anche se fosse la lingua del papà col suo bambino, perché varcare la linea del pudore è sempre una forma di violenza. Certe cose lasciamole all’intimità degli innamorati, ma evitiamole assolutamente ai piccoli.
L’ufficio stampa del capo temporale e spirituale dei buddhisti tibetani ha inoltrato tanto di scuse, giustificando il gesto con l’indole giocosa e burlona del Dalai Lama, Tenzin Gyatso, come si chiamava prima d’essere proclamato, a cinque anni dalla nascita, la reincarnazione di Buddha. Un’indole più forte di lui, sacra, viscerale, come sostengono i suoi difensori e come è successo anche quel giorno, stando al loro dire, quando un bambino, fra i molti che erano andati ad ascoltarlo, chiese di poterlo abbracciare. E come no? Prima l’abbraccio, poi un bacino casto sulla guancia e, già che ci siamo, perché non un bel bacio sulle labbra, mentre le fronti si uniscono, quasi in una fusione mistica? E poi improvvisa, con estro istintivo, farsi largo tra i denti la lingua e quel comando perentorio: succhiala!
Non voglio giudicare le intenzioni. Mi disgusta e basta. I media occidentali, nell’imbarazzo di un perdonismo in cerca di giustificazioni, ci hanno fatto sapere che da quelle parti, a partire dal secolo IX, andrebbe di moda esporre l’organo del gusto. Questo perché, stando ai racconti, un re crudele e terribile era solito mostrare la lingua, che era nera come la pece e come il male. Anche i sudditi impararono a mostrarla, solo per far vedere che loro, che erano buoni, la lingua ce l’avevano del colore che Dio comanda. Chissà se anche Einstein si è ispirato a questi racconti per fare al mondo lo sberleffo con la sua lingua in primo piano.
Sarà non sarà, sta di fatto che ve lo immaginate cosa sarebbe successo se un gesto analogo lo avesse fatto il papa o qualche vescovo nostrano? A parte il fatto che mi sembra offensivo solo il pensare una cosa del genere, ma la provocazione mi serve per dare voce a un altro schifo, ossia quello del doppiopesismo che i media usano quando di mezzo c’è la Chiesa o le altre religioni. Uno dei più importanti quotidiani nazionali, in questi giorni, commentava così: «è complesso e delicato capire come sia potuto accadere un fatto del genere». Il cardinale George Pell, da poco defunto, si è fatto quasi due anni di carcere, esposto alla gogna del mondo, per accuse di presunti abusi, rivelatisi assolutamente mai avvenuti. Nei giorni scorsi, in Polonia, hanno imbrattato la statua di San Giovanni Paolo II. A fronte della sua santità, che sfugge solo ai deficienti, qualcuno ha trovato il modo di seminare il fiele del dubbio su sue presunte coperture di pedofili. Ma che dire, a questo punto, del Dalai Lama che, nel 2018, ha ammesso di aver saputo da sempre degli abusi sui bambini che avvenivano nei monasteri, da parte dei casti monaci tibetani?
Qui, al disgusto per un gesto che si commenta da solo, senza volerlo trasformare in gogna, si aggiunge anche quello per la doppia morale di chi, avendo il potere di fare opinione, ha deciso che l’inferno ha le porte aperte soltanto per i cattolici.