La palliazione in terapia intensiva
Ogni atto terapeutico deve tener presente sempre due questioni che occupano i piatti di una stessa bilancia e di bilance ce ne sono tante, per esempio: costi/risparmio, rischi/benefici, azione attiva/desistenza terapeutica etc. quando poi l’atto terapeutico lo si intraprende in terapia intensiva, allora il cosa decidere, il cosa fare, diventano ancora più pesanti. La gestione del paziente in questa tipologia di reparto diventa sempre più complessa, non solo sul fronte del paziente ma anche in relazione con i familiari, con l’amministratore di sostegno e anche tra gli stessi operatori.
A peggiorare il tutto c’è da aggiungere che la terapia intensiva, a differenza di altri reparti, è l’accesso a una dimensione della vita ancora più profonda in quanto ha maggiormente a che fare con le questioni del fine vita. A questo proposito, non solo i pazienti e i parenti ma, come ricordavo, anche gli operatori stessi hanno visioni della vita diverse, a volte contrapposte e questo incide sul processo decisionale. Anche la pretesa di essere avulsi, lontani d’ogni filosofia o sentimento, è una pretesa impossibile in quanto, dal punto di vista culturale, l’uomo ha introiettato dentro di sé caratteristiche e categorie che non può semplicemente dimenticare.
Un altro aspetto che certamente non aiuta a decidere è l’orientamento procedurale basato sull’outcome (obiettivo/ risultato) della medicina, ancora oggi sintonizzato sul non far morire o sul miglioramento del quadro biofisico. Questo obiettivo è fuorviante in un reparto di terapia intensiva in quanto esula da una terza possibilità: quella di accompagnare il paziente a morire nel modo dignitosamente migliore. Primo grande successo sarebbe quello di aggiungere agli obiettivi anche la palliazione, l’accompagnamento del paziente quando non c’è più nulla da fare. Non è che non si faccia, ma, ancora deve consolidarsi una mentalità palliativa in senso stretto.
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