La fede senza le opere…
di Marco Andreotti, seminarista
“A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi’, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta”. Questo passo della lettera di Giacomo (2, 14-17), come numerosi altri della Scrittura, non ammette equivoci sulla necessità per i cristiani di far corrispondere alla professione della propria fede l’amore concreto per i fratelli. È una vocazione per tutti coloro che si mettono alla sequela di Cristo, un tratto distintivo e quotidianamente verificabile delle comunità cristiane vivificate dallo Spirito Santo, fin dai primi giorni della Chiesa: “erano perseveranti nell’in-segnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere » e «vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 42-45).
Gesù è l’esempio da seguire: fino all’estremo dono di sé, Egli ci rivela in ogni sua parola e suo gesto il volto misericordioso di Dio. I vangeli ci parlano di un Gesù fin da subito in missione. Dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, raggiunge immediatamente Cafarnao, nella periferica Galilea, per iniziare l’annuncio del regno dei cieli e portare ai poveri, ovvero a tutti, la consolazione dell’attesa messianica finalmente compiuta. È una premessa che sfida tutti noi, ma qui risiede la ragione autentica per cui ogni cristiano è invitato, pur nella molteplicità delle forme possibili e delle vocazioni, a dedicarsi agli altri.
Noi seminaristi di Modena e Carpi abbiamo la grazia di confrontarci ogni settimana con alcune realtà caritative delle nostre diocesi e siamo sicuri che ciò costituisca un momento importante della nostra formazione, non solo per la crescita umana e spirituale che ne deriva, ma perché chi è incamminato a configurarsi come Gesù “pastore” in vista del ministero ordinato è bene che si orienti prima di tutto a Gesù “missionario”. Non è un’oziosa questione di termini, ma un’interpretazione motivante anche per l’esperienza di carità dei seminaristi: vivere l’esperienza del servizio e della prossimità come missione. Non è un passaggio fra i tanti che fa parte del pacchetto “seminario”, non è un compito bene o male eseguibile, ma è scegliere di essere discepoli missionari pronti a servire il popolo di Dio e a farsi a propria volta evangelizzare (Evangelii Gaudium 121).
Diversi interventi proposti al 66° Convegno missionario nazionale dei seminaristi “Vite che parlano” (Napoli, 22-25 aprile 2023) sono andati in questa direzione, forse non originale, ma troppo significativa per non essere ribadita e riesplorata. Vale per tutti i battezzati e gli uomini di buona volontà, ma chi vuole diventare prete è chiamato alla predicazione e la predicazione più vera del Vangelo è quella della vita, disponibile a incontrare altre vite, a servire, condividere e consolare. “Io vi auguro che non stiate mai in testa e neppure in coda, ma possiate stare sempre in mezzo al popolo, come Gesù”, diceva don Tonino Bello ai suoi seminaristi candidati all’ordine sacro.
Quale prete per quale Chiesa? La bozza della nuova ratio nationalis dei seminari che sarà probabilmente pubblicata il prossimo autunno dice che “l’orizzonte della formazione sta nella comunione e nella missione”. Chi oggi diventa prete è necessariamente chiamato ad una vita di missione, rivolta innanzi tutto ai più prossimi, anche a chi non crede e a chi non pratica. È la passione per il Vangelo e per l’uomo che deve abitare ciascuno di noi, plasmarci al primo annuncio e spingerci all’incontro con chi è più fragile e svantaggiato, con i tanti fratelli più piccoli di Gesù.
Adottiamolo come criterio di adesione personale e comunitario a Cristo: saremo tanto più efficaci e saldi nel Vangelo, quanto più ci abitueremo a uscire da noi stessi e a spostare il nostro centro sugli affamati, assetati, stranieri, ignudi, ammalati e carcerati nei quali Gesù stesso si identifica (Mt 25, 31-46). Pertanto siamo convinti che l’appuntamento settimanale che ogni seminarista ha con persone che si trovano in carcere, in ospedale, in una comunità terapeutica, in una casa della carità, in una casa famiglia o anche in strada, per chi collabora con associazioni antitratta, non è semplicemente un impegno fra i tanti, ma un’occasione donata di rinnovamento interiore e “testimonianza della carità della comunità ecclesiale” (Statuto Caritas Italiana, art. 1).
In seminario ci prepariamo a diventare preti e proviamo, con l’aiuto di Dio e di tanti fratelli, a farlo da discepoli desiderosi di camminare davvero con Gesù. Il sacerdozio di Cristo è servire la Chiesa con la predicazione, l’accompagnamento dei singoli e delle comunità, la carità, i sacramenti e soprattutto l’Eucarestia. Nel rito di ordinazione dei presbiteri il Vescovo, dopo la consegna del calice e della patena, si rivolge così al nuovo ordinato: “renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore”. Parole di vita che ne fanno risuonare altre, come quel passo della Didaché (4, 8) che il cardinale Giacomo Lercaro aveva voluto inciso sull’altare maggiore della Cattedrale di Bologna: “se condividiamo il pane celeste, come non condivideremo il pane terreno?”.