Una civiltà di pace è possibile
Smantellare la guerra a partire dal quotidiano
di Don Carlo Bellini, vicario Episcopale per la pastorale
Siamo sconvolti dalla guerra, con le sue inutili atrocità e crudeltà, da un modo di fare guerra che non conosce più regole e coinvolge senza vergogna i civili. Gli orrori e gli infiniti inganni della guerra ci assalgono, ci rattristano e quasi finiscono per stancarci. Vorremmo non parlarne più, magari non avere notizie. E invece dobbiamo parlarne e mettere in campo parole di verità, che diventino cultura e civiltà e aprano alla speranza. Cominciamo allora col dire che la violenza tra gli uomini non è naturale. Stiamo tornando ad abituarci all’idea che le questioni tra gli uomini si risolvono con la violenza, che la guerra c’è sempre stata e ci sarà sempre. Invece gli storici rivelano che la preistoria non era tanto violenta (Marylene Pathu Mathis, Prehistoire de la violence et de la guerre, Odile Jacob 2013) e anche oggi ci sono culture che non conoscono la violenza o la tengono ai margini del loro stile di vita. Così sono i Fore della Nuova Guinea, i Kung del deserto del Kalahari o i Senoi della Malesia occidentale (studi raccolti dall’antropologo Ashley Montagu morto nel 1992). La violenza non è geneticamente insita nell’uomo (a differenza dell’aggressività) ma è un tipico prodotto di natura e cultura. Dunque, è possibile lavorare per una cultura della nonviolenza, cultura in senso forte, non idealismo utopico di una minoranza ingenua. Addirittura possiamo smascherare una cultura della violenza che ha le sue radici nella mitologia babilonese in cui il cosmo nasce dal dio Marduk che mette ordine nell’universo facondo a pezzi Tiamat, divinità femminile portatrice di caos.
Da allora nelle nostre narrazioni l’eroe positivo riporta l’ordine usando una violenza “buona”, da Ulisse fino a Spiderman e nessuno (unica eccezione Gesù di Nazareth) risolve mai le questioni senza l’uso della violenza, neanche nei cartoni animati. Eppure, si potrebbe scrivere la storia raccontando anche gli eventi che hanno avuto per protagonisti donne e uomini nonviolenti ed è stato fatto, ma non viene insegnato. Così come esistono teologie nonviolente in tutte le tradizioni religiose che aspettano di essere scoperte. Anche dal punto di vista dell’evoluzione da più di un secolo si sa che non c’è solo la sopravvivenza del più forte ma anche del più solidale. Invece eccoci qui in una miseranda cultura del “prima noi poi gli altri”, in una comunicazione fatta di slogan e arroganza, in un mondo che assiste all’aumento della violenza tra i giovani (anche per gioco) alla quale lo Stato risponde con un aumento del controllo. In fondo non è sorprendente che siano possibili guerre orrende in un mondo che tutto sommato è diventato più tollerante nei confronti della violenza quotidiana. Certo ci scandalizziamo ma alla fine torniamo al gioco storico della faziosità e del prendere posizione. In fondo pensiamo che la pace tornerà solo quando tutte le battaglie saranno state combattute fino in fondo e dunque vinca il migliore.
Da questo pensiero malato dobbiamo uscire, prima di tutto coltivando la speranza che un altro modo di stare al mondo esista. Credo che non ci sia altra via che un lavoro minuzioso, capillare, quotidiano di educazione e pratica della nonviolenza; che si occupi anche di economia, scienza, psicologia, politica e tutto il resto, che cioè non si basi su una fumosità velleitaria di gente ingenua (l’Università di Modena è entrata a far parte della Rete delle Università per la Pace). Lo si può fare anche a Carpi, le persone coraggiose e intelligenti non mancano. Un’ultima parola sul cristianesimo. La nonviolenza non è solo una tecnica della gestione del conflitto, è una cultura e anche una spiritualità, laica e religiosa, di apertura all’altro e all’Altro. I credenti in Gesù, morto e risorto, potranno essere fermento per il futuro se prenderanno sul serio la radice nonviolenta della loro tradizione, senza tentennamenti nei confronti di tentazioni identitarie che tollerino la scomparsa del diverso da sé.