Un profeta sconosciuto che ci parlava di virtù come relazione umana
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Sono con un dotto amico di lingua inglese che mi dice: hai sentito della morte di Alasdair MacIntyre? Non so che faccia abbia indossato in quel momento, sta di fatto che lui deve aver capito che, nel merito, non ne sapevo niente, un po’ come l’eunuco della regina Candace sul carro che andava verso l’Etiopia, mentre l’apostolo Filippo gli parlava dello Spirito Santo. Sai, è morto, l’altro ieri all’età di 96 anni, mi dice. Un lutto come quando si spegne un profeta.
Mi racconta a bocconi la vita di questo uomo. Nato in Scozia, a Glasgow, nel 1929, dopo la laurea si dedica all’insegnamento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, facendo apertamente professione di ateismo marxista. Poi la lettura di San Tommaso D’Aquino e di Aristotele lo avvicina al cristianesimo e alla religione cattolica, essendo lui di tradizione anglicana. A completare l’opera sarà la lettura delle opere del cardinale santo, Giovanni Newmann, anche lui convertitosi dall’anglicanesimo, e il pensiero e la vita di Edith Stein, filosofa ebrea atea poi diventata religiosa nel monastero del Carmelo, uccisa ad Auschwitz nel 1942 e proclamata, in seguito, compatrona d’Europa.
L’opera più nota di MacIntyre, mi spiega l’amico, risale a qualche anno fa. Si intitolava Dopo la virtù. Con lucidità e senza nostalgie per il passato, descriveva il declino, anzi la catastrofe della nostra cultura che ha fatto macerie dei concetti che regolano le relazioni umane, “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto”, “bene comune”… Concetti che ormai vengono considerati punti di vista individuali e niente più. Ognuno ha il proprio sentire e se lo tiene. Il papa ha detto che la famiglia è fatta da un uomo e una donna? Bene, io la penso esattamente al contrario ti dirà un altro e, con questo, uno pari e palla al centro. La vita va amata e rispettata fino alla fine? Lo Stato deve garantirmi di poterla sopprimere per legge, ti dirà un altro. Perché questo è il bene per me. Si potrebbe andare avanti ad oltranza, ma quello che emerge è l’assoluto individualismo che sta dietro a questi concetti, i quali dovrebbero invece esprimere il senso della virtù dentro un sentire comune. In realtà è scomparso il concetto dello stare insieme e quindi anche le parole sono diventate vuote di relazione. Magari continueremo a parlare di bene, ma quello è da intendere come il mio bene, anzi il mio punto di vista, non il bene che ci unisce e ci coinvolge, guardando insieme verso lo stesso orizzonte.
MacIntyre scriverà in una delle sue opere più recenti: “Dobbiamo pensare alla costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale possa essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale abbiano la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità”. A preoccuparlo era il sentire di tanta filosofia contemporanea per cui l’essere umano è autonomo e autosufficiente. È vero che sopravvive ancora il concetto di dover dipendere dagli altri, quando si è bambini, vecchi o malati, ma questo è confinato sempre più nell’ambito familiare e spesso neppure dentro le nostre case, soprattutto quando all’orizzonte si infila la vecchiaia e la malattia, diventate tante volte un peso, considerato insopportabile da gestire. Va da sé che a perdere forza è la virtù della misericordia, che è lo sguardo virtuoso di Dio sulla famiglia umana.