Pace, una ricerca che non si può evitare
Riflessione sulla violenza nel sacro, dalla Bibbia alle “guerre di religione” / Parte 2
di Brunetto Salvarani
Si può affermare, senza esagerazioni, che tutto, nella Bibbia, è nel segno della violenza: di volta in volta inscritta nell’ordine imposto al mondo creato, consegnata alla natura creaturale dell’uomo, comandata e permessa da Dio, attesa e sperata come liberazione e redenzione… In effetti, nessun altro tema antropologico o esperienza umana sono menzionati quanto la violenza: vi si possono contare oltre seicento passi riferiti a popoli, sovrani o singoli individui che hanno attaccato o ucciso; un migliaio in cui divampa l’ira di Dio; e oltre cento in cui YHWH ordina tout court di uccidere qualcuno. Certo, la testimonianza delle Scritture non risulta uniforme: non esiste, infatti, a dispetto delle frequenti letture in tal senso, un’unica linea, magari ascensionale, di evoluzione progressiva, che partendo dalle voci più antiche d’Israele giunge, come al suo vertice, a Gesù e alle prime comunità cristiane. Mentre le differenze fra libro e libro, corrente e corrente, autore e autore, e persino all’interno dello stesso libro, sono rilevanti. Ecco perché il criterio evoluzionistico, cui appunto spesso si ricorre, non appare adeguato a cogliere, nella sua globalità, la testimonianza biblica, tutt’altro che priva di posizioni contrastanti: ed è lo scontro tra diversi punti di vista e diverse prassi che emerge a uno sguardo spassionato, non velato da preoccupazioni apologetiche o giustificazionistiche. L’estrema frequenza degli appelli alla violenza nel Primo Testamento, del resto, non è scoperta recente. Si veda il caso del vescovo e teologo Marcione (85-160), che proclamò la radicale diversità fra il Dio del mondo ebraico e quello conosciuto attraverso la predicazione di Gesù e i vangeli. Il primo avrebbe richiesto sì la giustizia, ma manifestandosi come despota incostante, eccitato, selvaggio e bellicoso; il secondo sarebbe stato dunque un Dio nuovo, prima sconosciuto, amorevole e misericordioso. Per questo, egli aveva escluso dal suo canone il Primo Testamento, selezionando dal Nuovo solo gli scritti nella direzione da lui sostenuta. Di Marcione, in realtà, conosciamo le posizioni tramite le confutazioni dei suoi avversari, come Tertulliano, che nel 207 scriveva: “Marcione stabilisce due entità diverse tra loro, l’una giudaica, feroce, guerriera, l’altra mite, placida e solamente buona e ottima”. La Chiesa, a partire dal Concilio di Nicea (325), di cui quest’anno celebriamo il 1700esimo anniversario, non accolse le opinioni di Marcione.
Eppure, il tema della violenza, fino a pochi anni fa, non era quasi presente negli studi biblici scientifici. Intuitivamente, giocavano al riguardo certi meccanismi inconsci, che rimuovono dalla ricerca tutto ciò che ha a che fare con la violenza; tanto che spesso gli esegeti vi si sono accostati soltanto in modo indiretto, ma evitarlo veramente non possiamo in modo. Tanto più dopo l’uscita, nel 1972, del fondamentale volume dell’antropologo René Girard La violenza e il sacro e la sua conferenza, edita nel ’75, su Les malédictions contre les pharisiens et la révélation évangélique, che apportarono stimoli decisivi al dibattito relativo, a proposito – in particolare – del sacrificio rituale e del capro espiatorio.
Monoteismi violenti?
La storia, si accennava, racconta che l’esperienza religiosa ha portato spesso, lungo i secoli, a comportamenti individuali e di massa contrassegnati da violenza e sopraffazione, non di rado a vere e proprie guerre, dette appunto “di religione”. Dovremmo pertanto concludere che le religioni – in particolare quelle monoteistiche – sono necessariamente fonti d’intolleranza e di violenze? Va notato che, di fatto, fra il Cinquecento e il Seicento si comincerà a discutere di tolleranza e intolleranza proprio in riferimento alla credenza religiosa. Sul banco degli imputati, ebraismo, cristianesimo e islam. Perché questi effetti del monoteismo? Si tratta di una loro caratteristica intrinseca e ineliminabile, o di un effetto indotto in cui altre cause sono in realtà decisive?
Certo, il monoteismo manifesta una comprensione della sfera del divino in chiave di totalità ed esclusivismo; e l’esclusivismo monoteistico si è spesso tradotto in un vocabolario espressivo di rigida intolleranza mentale verso altre divinità e credenze (si pensi, per esempio, alla polemica anti-idolatrica, frequente nella Bibbia). A ben vedere, peraltro, l’intolleranza religiosa e le conseguenti violenze nascono esattamente laddove avviene un processo, più o meno conscio, di identificazione tra soggettività del credente e oggettività del Dio creduto. Quello si appropria della ricchezza di questo: se Dio è verità, verità è ritenuta e vissuta la propria credenza religiosa. Si tratta tuttavia di un’appropriazione indebita: se Dio è per definizione la Verità, altra è la sua percezione soggettiva da parte dell’uomo; se quello esclude di diritto altri dèi, non ne consegue che una credenza debba forzatamente escludere altre credenze, proprio a causa della sua storicità e parzialità. Il cammino verso l’Oggetto Immenso ammette per sé stesso pluralità e diversità di strade, di approcci e comprensioni. L’attuale teologia del pluralismo religioso sta lavorando in questa direzione.