Intervista ad Alessandro Barbaglia
Culturalmente, rubrica a cura di Francesco Natale
Alessandro Barbaglia, autore pluripremiato di Novara, torna a scrivere ai giovani lettori. In questo appuntamento di CulturalMente ci presenta il suo ultimo volume “Nené nel paese delle magarìe. Il bambino che diventò Andrea Camilleri” (Mondadori, 2025).
Lei racconta di un Andrea Camilleri bambino. Che cosa aveva di unico quel bambino?
Aveva il fatto di essere un bambino, cioè un condensato di futuro. A me piace indagare le infanzie dei grandi scrittori e delle grandi scrittrici, mi lascio sempre convincere che lì – in quel posto mitico che non esiste più, l’infanzia – ci siano gli indizi di quel che sono diventati da adulti. Ed è vero, certo, ma è un esercizio che si può fare solo a ritroso. Solo se sai chi è diventato quel bimbo. Di unico e speciale, invece, i bimbi mi pare abbiano tutta la vita davanti e la possibilità di fare, di quella vita, quel che meglio ritengono e possono. E allora io tento di raccontare Nené che volendo avrebbe potuto diventare qualsiasi cosa e che però vive in una terra magica, la casina di campagna di Nonna Elvira, con una nonna che lo nutra a storie, a libri, a fantasia. Ecco cosa aveva di unico Nené: la fame di storie che hanno tutti i bambini e tantissime storie di cui saziarsi.
Camilleri, lo si legge nel libro, si è appassionato presto alle storie, alla lettura: è questo che lo ha spinto a diventare uno scrittore?
È probabile, è possibile. Io nel romanzo sostengo questa ipotesi. Alla fine non credo che scrittori si nasca, immagino però che lo si possa diventare e Camilleri lo diventa. Come? Leggendo, leggendo tantissimo. E scrivendo, scrivendo tantissimo. Da bambino non aveva idea che sarebbe diventato uno scrittore, da ragazzo studia regia, inizia a lavorare come regista. Perché che le storie fossero una parte viva della propria persona gli è evidente da subito. Certe cose prendono la forma che sappiamo dargli, è vero, ma è anche vero che una predisposizione, o meglio una carta rapidità e facilità nell’imparare a fare qualcosa, ha ragioni innate, ereditarie, probabilmente. I bambini hanno curiosità e intelligenze spugnose, e Camilleri aveva moltissime storie da assorbire e studiare attorno a sé.
Quando si pensa a Camilleri si pensa subito alla Sicilia di Montalbano. Come mai lui è stato così attaccato alla terra sicula?
È una questione di radici. Intendiamoci, in assoluto senso letterale. Le storie di Camilleri affondano le radici in una terra ben precisa che è in grandissima parte la Sicilia e in grandissima parte la Sicilia delle storie. Le due realtà coincidono fino ad un certo punto e fino ad un certo punto sono la stessa cosa. La Sicilia di Montalbano è la Sicilia partorita dalla fantasia di Camilleri che è una fantasia nutrita dalla Sicilia in cui Camilleri è cresciuto. Però… dov’è Vigata? Non esiste. Dove si parla la lingua che parla Camilleri? Da nessuna parte, è un’invenzione. Mi sono fatto questa idea: Camilleri si è imbevuto di mito. Il mito ti circonda se nasci vicino ad Agrigento e vivi la terra del mito. Ma i miti servono solo per essere riscritti, e Camilleri riscrive tutto grazie al proprio genio. Le radici sono profondissime, ma noi leggiamo ciò che Camilleri scrive sulle foglie di quella pianta che sono le sue storie.
Cosa consegna Camilleri alle future generazioni e ai giovani lettori a cui ti rivolgi?
Non è facile rispondere, bisognerebbe essere Andrea Camilleri. E forse lui risponderebbe – ma posso sbagliarmi – che gli scrittori consegnano storie e non messaggi. Però, da lettore, da amante di Andrea Camilleri posso provare a dire che tutte le storie di Camilleri sono evocazioni, sono meraviglie capaci di dare forma all’invisibile. E per vedere l’invisibile bisogna chiudere gli occhi – altrimenti si vede il visibile. Ecco, c’è forse la possibilità di dare forma nella realtà alle storie che possiamo immaginare tenendo conto degli ultimi, dai fragili, dei deboli, degli oppressi di tutti i bambini che non hanno la fortuna e la sorte di diventare Andrea Camilleri ma che devono aprirsi alla fantasia non per diventare dei grandi scrittori ma per essere liberi.