Riparte la scuola in cerca di maestri e di relazioni vere
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Quando dico, con un pizzico di nostalgia, quella un po’ ingenua e caramellosa che arriva con l’età, che mi piacerebbe ritornare a insegnare, c’è sempre qualche docente che mi guarda col rispetto del compatimento e mi dice: guardi che la scuola è cambiata. Sono cambiati i ragazzi, sono cambiate le famiglie, ed è cambiata la politica… E allora comprendo anche la provocazione di quel professore di filosofia che, in un’intervista, ha dichiarato: mi piacerebbe cambiare lavoro. E quale lavoro vorrebbe fare se non l’insegnante, gli ha chiesto il giornalista? Il professore, è stata la sua risposta secca. Una battuta amara che racconta il senso di frustrazione e di alienazione con cui molti docenti vivono il loro impegno.
Ivano Dionigi, per lungo tempo rettore dell’Università di Bologna, e finissimo pedagogista che ho avuto l’onore di ospitare alla Biblioteca Capitolare di Verona per una conferenza, ha recentemente pubblicato un libro che già dal titolo è già una dichiarazione programmatica: La scuola la fanno i maestri non i ministri (Laterza). Titolo che se potessimo riavvolgere come una vecchia pellicola, ci riporterebbe all’essenza dell’educazione, ossia l’importanza della relazione tra insegnante e allievo, prima ancora delle competenze che si vogliono trasmettere. Ho ritrovato solo da non molto e per caso la mia maestra di quinta elementare. Di lei avevo il ricordo di una ragazza giovanissima con una coda di cavallo lunga e corvina. Ricordavo anche che, terminato l’orario delle lezioni, mi obbligava a rimanere un’ora in più, da solo con lei. Non ricordo assolutamente cosa mi insegnasse, ma ricordo perfettamente che terminata quell’ora mi riportava a casa con la sua Lambretta. A nessuno avevo mai osato chiedere il perché di quell’orario prolungato che mi veniva inflitto, avendolo attribuito, dentro di me, al fatto che dovessi risultare più somaro e impreparato degli altri. Ho invece scoperto con gratitudine che quella donna, con pazienza e dedizione, mi faceva ripetizioni di latino, analisi logica e grammaticale. A quei tempi per proseguire negli studi era necessario un esame di ammissione e lei aveva investito su di me, perché potessi continuare.
Esistono ancora figure come lei, maestri di vita prima ancora che di didattica? Io credo di sì, anche se oggi certo fiscalismo burocratico, famiglie sempre più pronte a intervenire a gamba tesa nel difendere i figli e una certa cultura del sospetto rischiano di paralizzare la libertà educativa del docente, quella libertà che dovrebbe essere sinonimo di creatività del cuore nei confronti delle nuove generazioni. C’è uno scarso senso del valore della relazione e delle relazioni dentro la società in cui viviamo. Una patologia di cui non è immune neppure la scuola. In questo senso considero una scelta encomiabile, benché tardiva, la decisione di vietare il cellulare durante le lezioni. Non si tratta soltanto di evitare distrazioni durante la scuola. Il valore di questa scelta è soprattutto quello di restituire i ragazzi a loro stessi, in quello scambio di umanità che è il fondamento dell’educazione e, in ultima analisi, il vero passaporto per la vita.