Il
In cammino con la Parola
Pubblicato il Ottobre 24, 2025

Il povero grida e il Signore lo ascolta

Commento al Vangelo di domenica 26 ottobre

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Commento

A cura di Padre Pasquale Cormio

Chi si umilia sarà esaltato

La parabola è ambientata nel tempio, in un momento di preghiera personale. I personaggi sono paradigmatici, espressione di due categorie agli antipodi: un fariseo, osservante della Legge, ed un pubblicano, noto peccatore ritenuto lontano dagli uomini e da Dio. Dalle parole che i due pronunciano intuiamo l’intenzione del cuore. Il fariseo, stando in piedi alla presenza di Dio, formula la sua preghiera tra sé e sé, riconoscendosi scrupoloso nell’osservanza delle pratiche di digiuno e di decime da pagare e ringraziando Dio per essere capace di assolvere i doveri religiosi. Su questa prima parte non vi sarebbe nulla da eccepire, se il fariseo non cadesse nel peccato di giudizio avventato e temerario: a partire dal confronto tra sé, giusto, e tutti coloro che vivono nel peccato, la sua preghiera si trasforma in una condanna inappellabile per chi vive lontano dalla Legge divina, come ladri, ingiusti, adùlteri e pubblicani. La superbia completa l’opera: a partire da una ritenuta superiorità morale e religiosa, il fariseo rivendica meriti raggiunti con le proprie opere.

Ai monaci, convenuti nei monasteri per vivere la comunione fraterna a servizio della Chiesa, sant’Agostino ricorda che la superbia instilla nel cuore dell’uomo un rovinoso amore per se stessi ed è capace di guastare le opere buone e meritevoli, svuotandole di ogni valore salvifico (cfr. Regola 1.7). Commenta ancora il vescovo di Ippona in un’omelia sul nostro passo evangelico: “Perché il fariseo è superbo? Non certo perché ringraziava Dio per i suoi beni, ma perché si elevava in quelle stesse virtù al di sopra dell’altro” (Comm. al Salmo 31, II, 10).

Passiamo a considerare il pubblicano, fermatosi a debita distanza e che prega con lo sguardo abbassato, riconoscendosi indegno al cospetto di Dio e battendosi il petto come segno di pentimento. Le brevi parole che pronuncia sono una supplica a Dio, senza giudicare gli altri: riconosce di essere peccatore, non lo nasconde e si affida alla misericordia divina. Sant’Agostino così interpreta la posizione del nostro personaggio: “Per questo il pubblicano non osava levare gli occhi al cielo, perché guardava in se stesso e puniva la sua coscienza; si faceva giudice di se stesso, di modo che il Signore intercedesse per lui; si puniva da sé perché Egli lo liberasse; si accusava perché Egli lo difendesse” (Comm. al Salmo 31, II, 12).

O Dio, abbi pietà di me peccatore! È la preghiera efficace, che scaturisce da una verità profonda: di fronte alla santità di Dio, non possiamo che mendicare la sua misericordia. A differenza del fariseo, che aveva elogiato le proprie buone opere attribuendole alle sue capacità e ad una integra condotta di vita, il pubblicano invece lascia a Dio l’iniziativa di rinnovare la sua persona. Il fariseo punta sulla sua giustizia, mentre il pubblicano confida nella giustificazione, che Dio concede a chi mostra un cuore umile e contrito.

La conclusione della narrazione è provocatoria: Dio giustifica, ovvero salva, il pubblicano per la sua fede, accogliendone la preghiera; il fariseo, invece, resta prigioniero della propria presunzione e religiosità formale. Chi si esalta, non lascia spazio all’azione di Dio nella propria vita, non ha nulla da chiedere ma solo meriti da ostentare, a differenza del peccatore che attende, in quanto bisognoso, ogni bene da Dio. In modo lapidario conclude sant’Agostino: “Quel ricco fariseo vantava i suoi meriti, il misero pubblicano confessava i suoi peccati” (Comm. al Salmo 85, 2).

L’opera d’arte

Johann Jacob e Franz Anton Zeiller, Il fariseo e il pubblicano (seconda metà del XVIII secolo), Basilica di Ottobeuren, Germania. L’abbazia bavarese di Ottobeuren, di antiche origini medievali, fu più volte danneggiata nel corso dei secoli. Ricostruita nel ‘700 in stile rococò (rocaille), la chiesa è arricchita all’interno dagli affreschi dei cugini tirolesi Johann Jakob e Franz Anton Zeiller. Quest’ultimo, che si formò a Venezia e a Roma, divenne pittore di corte del principe vescovo di Bressanone. Ad Ottobeuren, gli Zeller usarono colori delicati e di grande luminosità, forme eleganti e sfarzose.

I protagonisti del Vangelo di questa domenica si trovano davanti ad un altare con le tavole della legge ebraica. Il pubblicano è in secondo piano, vicino all’altare, mentre il fariseo, che si sta allontanando, addita con superbia l’altro personaggio. Si ribalta, dunque, quanto narrato nella parabola, in cui il pubblicano si ferma a distanza. La ricchezza dell’abbigliamento del fariseo contrasta con la povertà degli abiti del pubblicano, a simboleggiare umiltà e pentimento. La presenza del demonio alle spalle del fariseo connota in senso ancora più negativo questo personaggio.

V.P.

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