La crisi attuale della Chiesa sarà superata soltanto con cristiani capaci di relazione
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Se mettessimo in fila tutte le domande che interrogano la Chiesa in questa fase epocale ne uscirebbe una litania intrecciata di qualche pessimismo. Perché la gente che frequenta è sempre meno? In quali aspetti abbiamo sbagliato? È tutta colpa del clero o anche dei laici? E cosa fare per dare nuovo slancio alle nostre attività pastorali? Come adeguarci al cambio d’epoca come lo ha definito papa Francesco? Come dire il Vangelo rispettando l’oggi di Dio? Questo è solo un minimo campione di domande che però ci portano alla frontiera della crisi ecclesiale, per decidere quali strade intraprendere per dare una svolta all’andamento in atto. Va riconosciuto che la Chiesa, nelle sue varie espressioni clericali e laicali, mai come oggi si va interrogando sui cammini da intraprendere e gli stili di vita da assumere.
Il Sinodo ne è stata una fucina esemplare, che ora domanda di essere ripreso nelle varie assemblee diocesane, in quello che a me sembra uno spirito diffuso del Concilio Vaticano II, come se le sementi profetiche di allora domandassero di essere messe sotto l’azione di contadini capaci di farle nascere e fruttificare oggi. Mi chiedo spesso, in questo senso, se per caso non stiamo sprecando parole ed energie, anziché andare a prestito di quelle che altri ci hanno lasciato in eredità. Leggevo in questi giorni una affermazione di Paolo VI, il santo Paolo VI, il mio papa. Era presa dalla sua prima enciclica, Ecclesiam Suam dell’agosto del 1964. Era papa da poco più di un anno e stava per portare a conclusione i lavori del Concilio, iniziato da San Giovanni XXIII. Si capiva già allora che la sfida missionaria era aperta. Come portare al mondo il Vangelo, dove fondare la forza attrattiva dei cristiani? Paolo VI scrisse parole di una semplicità ed attualità disarmanti: “Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso in cui vogliamo essere loro pastori, padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi, il servizio” (nr. 90). Una proposta lapidaria e, nello stesso tempo sconvolgente se confrontata con lo stile dell’annuncio di quegli anni, ma anche se pensata in rapporto a qualche rigurgito tradizionalista dei nostri giorni, che pensa di tradurre la forza del mistero soffocandolo sotto l’estetica dei merletti da esibire dentro le chiese, di certo latinismo fine a se stesso o di qualche cappa magna, con tanto di coda, trascinata sotto le cupole delle cattedrali.
La traiettoria profetica di Paolo VI si snodava comunque da una precisa coscienza del nuovo rapporto che si doveva stabilire con la gente nei nuovi scenari storici. Riassumo qualche passo preso dalla stessa Enciclica. “Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli” (nr. 70). È il dialogo della salvezza partito dalla carità e dalla bontà divina. “Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti, destinato a tutti senza alcuna discriminazione (Col, 3, 11). Il nostro dialogo, parimenti, deve essere potenzialmente universale, cioè cattolico, e capace di annodarsi con ognuno” (nr. 78). Penso, con parole mie, che compito di ogni cristiano sia stare accanto. Sull’esempio di Gesù che, venendo in questo mondo, non ha fatto altro che spartire le lacrime della compassione di Dio con quelle umane. Forse la ricetta della rinascita sta tutta qui.




