Faggioli: “Trump è un ‘Messia’ politico, ma ora in Vaticano c’è un Papa americano”
In "Da Dio a Trump. Crisi cattolica e politica americana" analizza la profonda trasformazione del rapporto tra cattolicesimo e politica negli Stati Uniti
da sinistra Massimo Faggioli e Massimo Michelini
Maria Silvia Cabri
Il voto cattolico per Trump, la crisi del progressismo americano e l’impatto del nuovo Papa, Leone XIV. È un’analisi a tutto tondo quella che il professor Massimo Faggioli, storico della Chiesa e docente di Ecclesiologia storica e contemporanea al Loyola Institute del Trinity Collage di Dublino, a lungo professore al Villanova University, in Pennsylvania, delinea nel suo ultimo saggio “Da Dio a Trump. Crisi cattolica e politica americana” (casa editrice Morcelliana). Il libro è stato presentato il 17 dicembre a Concordia sulla Secchia, nel corso di un incontro organizzato dalla cooperativa culturale Gioacchino Malavasi.
Professor Faggioli, come ha maturato l’idea di scrivere il suo ultimo libro?
La genesi è abbastanza semplice: la casa editrice Morcelliana è rimasta contenta del mio volume su Biden, “Joe Biden e il cattolicesimo negli Stati Uniti”, uscito a inizio del 2021, e mi ha proposto di scrivere un testo per il pubblico italiano, per introdurlo a cosa significhi il trumpismo o, meglio, il ritorno del trumpismo. Quindi tra le settimane appena prima dell’elezione (a novembre 2024) e il mese e mezzo dopo la stessa, ho raccolto quante più idee e materiali possibili, in tempo per uscire con il libro a gennaio, ossia per l’inaugurazione della sua seconda presidenza, già intuendo un po’ quello che quello che sarebbe successo, ossia che il mandato “Trump due” sarebbe stato più radicale, più incisivo rispetto al primo.
Il sottotitolo del suo testo recita “Crisi cattolica e politica americana”. In cosa consiste questo “scisma liquido” e in che modo sta dividendo i cattolici americani?
Per capire il cattolicesimo americano nel rapporto con la politica, e la diversità rispetto all’Italia, e all’Europa, occorre partire da una importante premessa. Il cattolicesimo americano, negli ultimi trenta anni, si è spaccato in due partiti all’interno della Chiesa stessa, prima attorno alla questione dell’aborto, e oggi a quella del gender. Questa polarizzazione, questo “scisma liquido” è coadiuvato e reso possibile dal fatto che c’è un sistema a due partiti: la prima domanda che ogni americano si fa quando incontra un connazionale è “sarà democratico o repubblicano?”.
Una questione fortemente sentita in America…
Assolutamente sì. Democratici e repubblicani hanno smesso, per esempio, di sposarsi fra di loro, e questo si riflette anche a livello di chiesa. Dunque, è uno “scisma liquido” che ha effetti sulla coesione della Chiesa e sui rapporti interni alla parrocchia, a una diocesi, a una scuola cattolica, un’università cattolica, ed è molto più radicale rispetto ad altre divisioni ideologiche all’interno del cattolicesimo. Si prenda l’Italia, ad esempio nell’era Berlusconi: non c’era questa scomunica morale di chi votava per l’altro partito. C’era magari antipatia, ma non l’idea che chi votava per l’altro partito non fosse più cattolico o fosse eretico. Invece l’America è così e questo ha ingigantito alcuni problemi in quanto lo scisma attraversa non solo la Chiesa cattolica, che è la chiesa più grande del paese, ma tutte le chiese. Oggi assistiamo quindi ad una guerra civile fredda “soft” ma non troppo – vista la presenza dell’esercito per le strade di Washington, Chicago, e il cattolicesimo che ha un ruolo centrale in America perché i cattolici sono diventati parte centrale della narrazione politica su come riconquistare il paese.
Il cattolicesimo come chiave per capire dove va l’America?
Esatto, è questo ciò che cerco di spiegare nel mio libro. Un cattolicesimo molto diverso da quando c’era Kennedy, sessanta anni fa, ma anche da quando, pochi anni fa, c’era Biden che era esponente di una vecchia classe politica. Ora c’è la nuova classe politica dei nuovi cattolici come JD Vance o come il giudice alla Corte Suprema Amy Cony Barret, che sono cattolici post-conciliari, ma “alla loro maniera”. Dunque, la crisi politica americana e quella cattolica vanno insieme: è impossibile spiegare o capire l’una senza l’altra.
Che differenza c’è, secondo lei, tra la secolarizzazione della società americana e quella invece europea?
Ci sono varie differenze; intanto dal punto di vista della lunghezza storica, nel senso che in Europa la secolarizzazione è iniziata a fine Settecento, e poi Ottocento, il nazionalismo e ha accelerato nel Novecento, ma è un processo di lungo periodo. In America è avvenuta negli ultimi 15/20 anni e in modo rapido; tuttavia, si è tradotta in visioni della vita religiosa che sono molto diverse.
Cosa intende?
In America, smettere di andare in chiesa non vuol dire solo smettere di andare in chiesa, ma vuol dire smettere di credere. Ma l’America è un paese che richiede di credere in Dio che ha creato l’America come progetto politico, nazionale, speciale, e quindi smettere di credere in Dio vuol dire smettere di credere nell’America. Se in Europa la creazione dello Stato italiano o della Germania o della Francia è avvenuta con un certo distacco della religione, in America è stato il contrario. E il trumpismo ha intuito in modo geniale, quale “genio del male”, che c’era un vuoto morale da riempire, specie su alcuni temi, come l’aborto in passato – ma ora Trump è diventato agnostico sulla questione – o adesso il gender o il ruolo della religione nella politica, nell’esercito; ha individuato un movimento all’interno dell’America che stava consumando l’America stessa e che secondo lui, così come secondo molti vescovi, e pastori, andava fermato, anche con Trump stesso che reputo sia il personaggio più improbabile per ridare Dio all’America. Con una aggiunta: il trumpismo è più di Trump, continuerà anche dopo Trump. Questa crisi morale dell’America non si risolverà con una presidenza, ma passerà a qualcun altro e continuerà per un certo numero di anni almeno.
Trump è stato votato dal 54% dei cattolici…
Sì, ma molti di più come percentuale di cattolici bianchi: sei cattolici bianchi su dieci lo hanno sostenuto. C’è questa teoria di “ridare” l’America ai bianchi, che è forte nelle Chiese protestanti, ma anche nel cattolicesimo: vedono nell’ascesa di una componente non bianca, l’ascesa di chi non crede abbastanza nell’America. Basti pensare a quando Barack Obama è stato eletto: il trumpismo vuole essere una risposta a Barack Obama e ciò friziona con gli insegnamenti della chiesa contro il razzismo, la segregazione razziale.
Con questa polarizzazione politica, come si intreccia la fede?
La fede non è mai qualcosa di “isolato” che non si interfaccia con gli altri aspetti, è un qualcosa di centrale nell’esperienza americana: la maggioranza degli americani crede veramente a Dio alla “vecchia maniera,” ossia a inferno, purgatorio, paradiso, apocalisse, angeli, diavoli. Una fede vera, ma caratterizzata da una cultura nazionale molto forte, condizionata dall’idea che l’America abbia un posto speciale nella storia e nel mondo.
Un diverso modo di porsi rispetto all’Europa?
In passato il cattolicesimo americano andava al traino dell’Europa, ossia l’America era una “provincia” dell’Europa e quindi la cultura teologica era europea. Oggi gli americani si sono stancati di prendere lezioni dagli europei su tutto, dall’economia, alla difesa e anche sulla religione. E il trumpismo è una risposta nazionale di un paese che ha che ha deciso che gli europei non sono più i cugini lontani o i parenti, ma sono l’anti modello, quello sbagliato da non seguire su tutta una serie di questioni quali intelligenza artificiale, economia, sanità, difesa. Ai tempi di Papa Francesco, il quartiere generale dell’opposizione al Pontefice era negli Stati Uniti, non per una questione personale, ma perché c’erano due visioni molto diverse del mondo e della Chiesa.
L’elezione di Papa Leone XIV, il primo papa americano, si può considerare una risposta diretta a Trump?
Diretta forse no, ma comunque è una risposta, nel senso che il Conclave trova sempre un modo per “rispondere”. Non è chiaro ancora quale sia stata la coalizione che ha portato alla candidatura Prevost, anche perché pare che sia stata molto ampia e quindi con intenti diversi, ma sicuramente eleggere un Papa americano al tempo di Trump è la cosa più importante. Il Cardinale Francis Eugene George, Arcivescovo emerito di Chicago (venuto a mancare nel 2015), al tempo ha detto una cosa molto interessante: “La Chiesa cattolica eleggerà un Papa americano solo quando gli Stati Uniti entreranno in una fase di declino”. È una tesi su cui riflettere molto, perché per secoli il conclave ha osservato il dogma secondo cui non si poteva eleggere un Papa proveniente da una superpotenza (ad esempio la Francia). Questa volta, invece, quel dogma è stato superato, in quanto nel mondo di oggi l’America è un paese in declino o comunque “più normale”. E questo è, a mio parere, un elemento molto importante da tenere in considerazione per capire il significato dell’elezione, e come si rapporterà Papa Leone con gli Stati Uniti, ma anche con l’Europa, e con i nemici storici degli Stati Uniti, ossia Cina, Russia, Cuba. Questo è l’aspetto più affascinante di questo momento e di questo pontificato.
In base ai primi elementi emersi, cosa potrebbe comportare per la Chiesa, non solo americana, ma in generale, avere Papa statunitense?
Una prima cosa che è emersa – apparentemente buffa, ma molto interessante – sono le abitudini del Papa. Quando era cardinale, da buon americano, andava in palestra regolarmente; ora ogni settimana va a Castel Gandolfo a curare il proprio fisico, a ritemperarsi, a giocare a tennis, tutte abitudini molto americane. E’ un canonista di formazione, un uomo di legge, quindi ama mettere ordine nelle norme confuse, ed è un papa amministratore, che ha amministrato un ordine religioso globale per molti anni e quindi ha delle caratteristiche particolari, peculiari. È un papa da Chicago, la Chicago dei Blues Brothers, la Chicago del cattolicesimo sociale. E’ un papa la cui prima lingua è l’inglese e lui sa che in certe occasioni e su alcune questioni, deve parlare inglese per comunicare direttamente e questo è di grande fascino perché il Vaticano è stato per moltissimo tempo allergico al mondo anglofono perché era quello dei protestanti. Ancora dobbiamo ancora vedere quale sia la sua visione del mondo geopolitico: ha scelto di partire piano, di studiare bene tutte le questioni. È un papa giovane, che sa di avere davanti a sé il tempo per approfondire tutto; è il primo papa nato dopo la Seconda guerra mondiale, suo padre ha combattuto in Normandia. Proprio un mondo completamente diverso dai suoi predecessori.
Per utilizzare il linguaggio tennistico, in base alle sue parole pare un Papa che più che andare subito a rete, sia uno che palleggia a fondo campo…
Per adesso sì: per ora ha giocato molto di rimessa. Nei suoi discorsi fa sempre molta attenzione a citare sempre i suoi predecessori, senza escludere nessuno, Francesco, Benedetto, Giovanni Paolo II. Non l’ho mai visto giocare a tennis, ma credo che sia più da fondo campo che da rete…




