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    Chiesa, Editoriali, Il Settimanale, Rubriche
    Pubblicato il Aprile 28, 2021
    Editoriale

    Rendere giustizia non è esercizio di potere

    Cosa insegna la beatificazione del giudice Rosario Livatino

    di Roberto Cigarini, Giudice presso la Corte di appello di Bologna

     

     

    Nel discorso tenuto al Consiglio Superiore della Magistratura il 26 settembre 1990, cinque giorni dopo l’omicidio del giudice Rosario Livatino, l’allora Vice-Presidente dell’organo di autogoverno dei giudici, Giovanni Galloni, affermava che “tra il 1984 e il 1988, nella Procura di Agrigento, Livatino fu il magistrato che definì più procedimenti, formulò più richieste di rinvio a giudizio. Per la sua conoscenza del fenomeno criminale nel territorio, gli furono affidate indagini complesse su organizzazioni criminali, cui appartenevano persone di Agrigento e della stessa sua città natale. Dalla direzione e dal coordinamento di queste indagini, condotte con rigore ed impegno, sono poi seguite le istruttorie conclusesi con il rinvio a giudizio e con la condanna di grossi esponenti della criminalità organizzata”.

    Livatino fu tra i primi magistrati che utilizzarono lo strumento della confisca dei beni, particolarmente odiato dai mafiosi, molto di più della condanna al carcere. Il tipo di giudice in cui Livatino si identificava emerge con chiarezza nel discorso tenuto a Canicattì il 30 aprile 1986. Il giudice di Livatino è quello “disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.

    Siamo lontani anni luce dalla figura di un inquisitore aggressivo in cerca di gloria mediatica. Livatino è un funzionario riservato, che agisce nel rispetto delle leggi con un profondo senso della giustizia che lo rende insensibile ad ogni tipo di condizionamento, indipendente ed imparziale.

    Nel delineare poi il compito del magistrato credente il pensiero di Livatino raggiunge un vertice. Rendere giustizia è correlato alla preghiera e alla dedizione di sé a Dio, cui si giunge sia attraverso un rapporto diretto sia, indirettamente, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata: “Il compito del magistrato è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.

    A questo altissimo compito di rendere giustizia sono chiamati, per altra via, ma sempre con un impegno che ha un connotato di spiritualità, i magistrati non credenti: “Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale”. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, “dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia”.

    Con irritante cinismo, qualcuno non ha esitato ad affermare che Livatino “toccò i fili dell’alta tensione. Ingenuo! Doveva aspettarsi quella fine”. Le agendine sulle quali il giovane giudice annotava brevissimi, drammatici, cenni, attestano, dal 1984 in avanti, una consapevolezza massima del pericolo che stava correndo (la mia anima non sta più bene. Vedo nero nel mio futuro) pericolo certamente non cercato, per il quale invocava un aiuto dall’alto (Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?) e si riaccostò all’eucaristia (“Oggi dopo due anni mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori. Invoco la benevolenza divina su quelli che restano”).

    È noto che il giudice Livatino, pur massimamente consapevole del gravissimo pericolo che stava correndo, rifiutò la scorta. Non si trattò certo di una colossale ingenuità, né di latente, insensata, follia. Livatino pensò alle vite degli altri, affermando, con realismo, di non volere lasciare vedove e orfani, ritenendo preferibile l’uccisione di un solo uomo a quella di due o tre carabinieri. Alla giovane professionista con la quale si era fidanzato, la quale desiderava ufficializzare il rapporto sentimentale, non esitò a dire, dopo l’omicidio del giudice Antonino Saetta: “Ti prego di riflettere. Sei ancora in tempo; la prossima vittima potrei essere io”.

    Le beatitudini della “fame e sete della giustizia” e dei “perseguitati per la giustizia” vedono dunque in Livatino un testimone eccezionale, come già intuì san Giovanni Paolo II, definendolo un “martire della giustizia, e indirettamente della fede”. È commovente il fatto che, in fin di vita, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, Livatino si sia rivolto agli assassini con mitezza: “Cosa vi ho fatto, picciotti?”.

    Il martirio è la forza più eloquente ed efficace contro il male. In un messaggio lasciato sulla sua tomba il 21 settembre 1993 quattro giovani hanno scritto queste parole: “Dal sangue dei martiri il seme di uomini nuovi. E a noi tocca essere terreno fertile! Sul tuo sacrificio, e su quello di quanti altri sono disposti ad amare fino a dare la vita, ci impegniamo ad esserlo perché il Bene continui ad abitare la terra. Crediamo che questo valga tutta la pena e tutta la gioiosa Speranza… e crediamo in questa terra di Sicilia che genera uomini come te”.

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