Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida
Commento al Vangelo di domenica 11 maggio
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Ascolto, conoscenza e sequela
A cura di Rosalba Manes, consacrata ordo virginum e biblista
Nel Vangelo della IV domenica di Pasqua, Giovanni ci presenta la relazione di speciale intimità che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli. Essa viene assimilata al rapporto che si instaura tra un gregge e il suo pastore. È Gesù stesso a presentare la qualità alta di questa relazione in un discorso che apre il capitolo 10, si colloca dopo il racconto della guarigione del cieco nato ed è seguito da un forte dissenso da parte dei Giudei che rivolgono a Gesù l’accusa di essere indemoniato e fuori di sé.
Il ministero di Gesù scandalizza i Giudei che faticano a comprendere la sua identità e si ostinano a cercare definizioni che possano abbracciarne tutta la portata. Gesù allora interviene e si presenta come il pastore bello, buono, cioè l’autentico alleato del suo gregge. Tutta l’esperienza di Israele viene letta dalla sapienza biblica come la storia di un gregge che viene condotto saggiamente e amorevolmente dal suo pastore. Il salmo 23, ad esempio, si presenta come un canto di fiducia che rilegge l’intera storia di Israele: dall’esperienza nomadica del non avere una terra, passando per la prova del deserto, all’approdo nella casa del Signore, che diventa la Terra dove il credente può abitare per sempre. Il Salmo, pervaso di poesia, si presenta come un dittico composto da due immagini: quella del pastore e quella dell’ospite. I due centri simbolici fondamentali attorno ai quali esso ruota sono infatti il pastore che procede col suo gregge verso una fresca distesa di verde e una coppa colma sulla mensa preparata per il pasto, segno di ospitalità con sfumature liturgico-sacrificali.
L’immagine del pastore è tra le più care alla spiritualità biblica, ricca di fascino e di calore. I patriarchi erano pastori di bestiame minuto (pecore e capre), vivevano sotto le tende e si spostavano in base alle esigenze del gregge. Ammaestrati dalla loro esperienza, compresero che Dio si comportava nei loro confronti come un buon pastore vigile, attento e premuroso. Il pastore nella mentalità semita è molto di più di una semplice guida. Egli è soprattutto il compagno di viaggio che condivide tutto ciò che vive il suo gregge. Si può capire bene allora il motivo per cui il simbolismo pastorale diviene nella Bibbia un’espressione privilegiata per parlare di Dio, spesso in polemica con i re e con i politici e con tutte le guide del popolo che in oriente erano appunto chiamati “pastori”. Diversamente dai sovrani terreni, Dio è un pastore giusto, attento alle pecore deboli, vero compagno di viaggio del suo popolo e non un regnante insensibile e approfittatore.
Gesù qualifica inoltre il suo rapporto con il gregge attraverso la categoria dell’ascolto, disposizione fondamentale per vivere l’alleanza, motore dello Shema Israel: «Le mie pecore ascoltano la mia voce». Accanto al clima di fiducia che si instaura attraverso la dinamica dell’ascolto, appare l’atmosfera di una profonda conoscenza del gregge da parte di Gesù, conoscenza che nella Bibbia è sempre legata all’amore: «io le conosco ». Questa conoscenza nell’amore porta il gregge a nutrire il profondo desiderio di seguire il pastore: «ed esse mi seguono». Gesù parla, il suo gregge lo ascolta; Gesù ama e conosce il suo gregge ed esso lo segue. Ascolto, conoscenza e sequela rappresentano la triade che qualifica il rapporto dei discepoli con Gesù, un rapporto di intimità che produce i suoi effetti: il dono del pascolo più ambito che è la vita eterna.
Questo dono di comunione promesso al gregge viene dalla certezza che nessuno può strappare le pecore dalla mano del pastore. Queste pecore Gesù non le ha catturate, ma le ha ricevute in dono dal Padre. La qualità della relazione che Gesù instaura con i suoi è fortemente determinata infatti dalla comunione che egli vive con il Padre, una comunione unica e profonda se Gesù può dire che lui e il Padre sono uno. Questa unità fonda l’unità del gregge, l’unità della comunione ecclesiale che quando viene a mancare è perché il gregge sceglie di ascoltare le voci dei mercenari e non riconosce più la voce dell’Amato Pastore.
Questo brano del capitolo 10 di Giovanni parla del rapporto tra il pastore e le pecorelle, cioè di come si attua l’unione mistica fra le pecore e il pastore. È una risposta molto profonda al desiderio grande che c’è in ognuno di noi: il bisogno di incontrarci con colui al di là del quale non vi è nessun’altra cosa. È l’incontro unico che dà il significato definitivo all’esistenza umana e ad ogni suo atto.
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono». Perché ascoltano la voce del pastore Gesù? Perché esse si sentono ascoltate! Il pastore intesse un dialogo appropriato per cui ognuna si sente ascoltata, capita e può dialogare con il pastore. Pur essendo tutte sue e amandole tutte insieme, ognuna si sente sua in modo particolare e inconfondibile. Il suo amore per noi è ben preciso e ben indirizzato per entrare in intimità profonda, per cui ci possiede e ci apre alla sua realtà. Questo è l’incontro essenziale!
Don Oreste Benzi (Tratto da “Pane Quotidiano, Sempre Editore”)
L’opera d’arte
Bartolomé Esteban Murillo, Il Buon Pastore (1660 c.), Madrid, Museo del Prado. E’ questa la domenica detta “del Buon Pastore”. Nel quadro qui a fianco, commissionato per la devozione privata, Murillo, uno dei grandi pittori del Seicento spagnolo, dotato di profonda sensibilità religiosa, raffigura questo soggetto con sembianze, per così dire, insolite. Il Buon Pastore è infatti Gesù bambino, che tiene nella mano destra il bastone usato per condurre il gregge, mentre la sinistra è appoggiata sul dorso della pecora al suo fianco, come per abbracciarla. Alle spalle del piccolo pastore si notano alcune rovine antiche, che nell’iconografia tradizionale rappresentano il mondo pagano su cui il cristianesimo ha trionfato. Sempre sullo sfondo, a destra, il resto del gregge, lasciato per andare a cercare la pecorella smarrita. Quest’opera, dall’atmosfera di tenerezza – evidente, appunto, nel gesto di protezione del bambino verso la pecora – e di immediata comprensione ad un pubblico ampio, è divenuta nel tempo molto popolare grazie a numerose riproduzioni a stampa.
V.P.