Sul dono dello Spirito non chiudiamo bottega passata la Pentecoste
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
“Avete ricevuto lo Spirito Santo?” chiedeva san Paolo agli abitanti di Efeso, prima di lasciarli per recarsi a Gerusalemme. “Non ne abbiamo nemmeno sentito parlare” era la disarmata risposta dei credenti del luogo. La Pentecoste, che ha chiuso il ciclo della Pasqua la scorsa domenica, potrebbe diventare l’occasione per fare la stessa domanda ai cristiani del nostro tempo. Sono convinto che le risposte della maggior parte degli intervistati oscillerebbero tra una sostanziale indifferenza e una evidente ignoranza. Anche tra i praticanti. È vero che questi ultimi rivendicano qualche infarinatura in più, ma la sostanza non cambia di molto. Anche le stesse rappresentazioni che vengono fatte nelle chiese, con nastri multicolori e le famose sette lampade, colme di oli dalle tinte diverse, non riescono ad andare molto oltre ad una ingenua rappresentazione simbolica. A un gruppo di cresimandi, cui chiedevo chi fosse lo Spirito Santo, la risposta del più intraprendente del gruppo è stata lapidaria: “è un pezzo della Trinità”.
Resoconti che lasciano dentro l’impressione di una sostanziale indifferenza verso questo dono che Gesù ha promesso ai suoi perché fosse il motore della Chiesa e della vita di ogni credente. In realtà se oggi non c’è grande interesse per lo Spirito, ciò dipende da molte cause. A cominciare dall’indifferenza verso la dimensione spirituale della vita. Tutti convinti che gli obiettivi del vivere siano raggiungibili attraverso i mezzi che la tecnica ci mette a disposizione. Eppure già tre secoli prima di Cristo, senza scomodare le scritture bibliche, un saggio cinese affermava che primo dovere di ogni persona era “nutrire lo spirito-energia che ci portiamo dentro”.
Ma forse lo Spirito non gode di molta popolarità anche tra chi va in chiesa e questo anche per la l’abitudine di confondere credere e fede. Nella nostra lingua quasi sempre le due parole si equivalgono, di fatto esiste tra loro una rilevante differenza. Oggi si parla di praticanti non credenti per indicare gente che conosce alcuni principi della dottrina, magari va anche alle celebrazioni, rispetta le tradizioni, ci tiene a dare i sacramenti ai figli, ma una volta ritornati nella vita lasciano tutto questo nello sgabuzzino delle cose superflue, finendo per vivere come se il Vangelo fosse irrilevante. Questo appartiene al credere. È invece questo il momento in cui dovrebbe farsi largo la fede, cioè l’ispirazione interiore guidata dalla parola e dalla vita di Gesù capaci di orientare le parole, i pensieri, le scelte che siamo chiamati a fare ogni giorno. È su questa frontiera che i cristiani sono chiamati a invocare lo Spirito, per assimilare l’animo del Maestro e lasciarsi guidare dai suoi stessi sentimenti. Ma tutto questo domanda un ritorno alla Parola del Vangelo, fatto con passione e intelligenza. Una giovane che si definiva non credente mi chiedeva in questi giorni chi avrebbe potuto guidarla dentro questa Parola, quali libri consigliarle? Più che una ricerca vera, la sua richiesta mi sembrava celasse anche una punta di sfida nei confronti della Chiesa. Quasi a dire: come annunciate il Vangelo oggi? Come, nelle omelie, nel catechismo riuscite a far percepire lo Spirito vero di Gesù, togliendolo dagli scaffali impolverati di una teologia ripetitiva, di una morale sbrigativa, di luoghi comuni, triti e ritriti, che ci passano sopra la testa senza colpire l’intelligenza? Solo provocazioni? Certamente, ma non troppo.