Il sale della democrazia. Da un anno amministrazioni locali al lavoro
Sindaci, assessori e consiglieri comunali, sempre più “social”, hanno ricordato in questi giorni il primo anno di mandato. Presto per fare bilanci, di solito una prima verifica si fa a metà percorso, però è un tempo già sufficiente per un’analisi qualitativa dell’agire politico che connota maggioranze e opposizioni. Esistono questioni di “ordinaria amministrazione” su cui la semplificazione dei punti di vista è utile al confronto ma esistono questioni sostanziali, visioni della società e delle relazioni tra soggetti che la abitano, che anche la politica locale è chiamata ad affrontare.
Si pensi ai temi della sanità pubblica e dei servizi alle fasce di popolazione più fragili, delle politiche di sostegno alle giovani famiglie (asili nido e centri estivi), della violenza nelle bande giovanili, dell’integrazione dei cittadini stranieri… qui non basta alzare i toni o catturare i titoli dei giornali, serve il coraggio del confronto. Può essere utile allora anche per chi si impegna nel servizio alla comunità attraverso la politica questa riflessione dell’editorialista Stefano De Martis che seppur partendo dallo scenario nazionale ben si addice anche al contesto locale.
L.L.
A cura di Stefano De Martis
Nella migliore tradizione del costituzionalismo inglese, sin dal XIX secolo la democrazia rappresentativa è stata definita government by discussion. L’espressione, a quanto risulta, è stata coniata dal filosofo John Stuart Mill, uno dei maggiori pensatori liberali dell’800, e la sua traduzione è semplice anche per chi non coltiva l’idioma d’Oltremanica. Certo, esistono nella storia delle dottrine politiche definizioni più pregnanti di democrazia, almeno dal punto di vista dei valori, ma nel suo pragmatismo anglosassone la formula di Mill contiene molto più di quanto potrebbe apparire a una lettura superficiale. Dicendo “governare attraverso il confronto”, infatti, si mette in evidenza quel che viene prima e dopo la decisione politica, su cui oggi si concentrano invece tutte le attenzioni, lasciando in ombra il processo democratico nella sua interezza. Senza confronto, insomma, non c’è autentica democrazia, anche se i governi derivano da un passaggio elettorale (più o meno libero). Lo vediamo soprattutto nell’esperienza odierna dei regimi che alla democrazia pretendono di assomigliare, ma come una parodia assomiglia all’originale. Una deriva che purtroppo tende a fare nuovi proseliti anche laddove la democrazia sembrava aver piantato robuste radici.
Il confronto necessario alla democrazia dev’essere però un confronto vero, tra proposte credibili e chiare, pur nella complessità ineludibile dei problemi del nostro tempo. Proposte, appunto, “confrontabili”. Se in campo ci sono soltanto slogan, promesse impossibili o enunciati ideologici, che non tengono conto dei dati di realtà, il confronto è viziato in origine e si trasforma in uno scontro tra posizioni radicalizzate e impermeabili ai contributi esterni. Come non pensare che anche questa sia una causa – e non delle meno rilevanti – del calo vistoso e progressivo della partecipazione?
Ma il confronto ha anche bisogno di luoghi appropriati perché possa essere esercitato in modo costruttivo. Il luogo del confronto per eccellenza, nel nostro ordinamento, dovrebbe essere il Parlamento, come rivela il suo stesso nome e come stabilisce solennemente la Costituzione. Tuttavia le cronache politiche ci restituiscono quasi quotidianamente l’immagine delle due Camere come mere appendici del governo, molto al di là delle regole e dei limiti che dovrebbero regolare il rapporto tra l’esecutivo e il Parlamento. Si tratta di una tendenza che travalica ampiamente i confini dell’attuale legislatura e che però in questa stagione ha assunto connotati parossistici. Il tema del ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia ha raggiunto un apice nella vicenda del “decreto sicurezza”. In origine era un disegno di legge, la Camera lo aveva già approvato in prima lettura, ma per superare l’impasse che si era creata al Senato il governo ha pensato bene di trasferire la maggior parte delle norme in un decreto legge, quindi immediatamente in vigore. Il decreto è stato poi convertito a colpi di fiducia, tra le proteste delle opposizioni, a inizio giugno.
Anche i partiti politici sono o dovrebbero essere un luogo eminente di confronto, come si evince dall’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Anche in questo caso c’è uno scarto tra il dettato costituzionale e la realtà delle cronache politiche. I partiti sono sempre più i comitati elettorali dei loro leader. Ci si rammarica spesso che non sia mai stata fatta una legge per codificare il principio dell’art.49. Giusto rammarico che però non esime dal considerare che i partiti stessi potrebbero autonomamente diventare o ri-diventare luoghi di elaborazione e di dibattito anche in assenza di una norma specifica.