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    Attualità, Chiesa
    Pubblicato il Agosto 9, 2021

    Le esequie di don Cavazzuti – Castellucci: “Alla sequela di Cristo non faceva sconti”

    Commossa partecipazione all'ultimo saluto a don Francesco. L'omelia del Vescovo

     

    Oggi, 9 agosto, nella Cattedrale di Carpi, la comunità diocesana riunita attorno al suo Pastore, monsignor Erio Castellucci, ha accompagnato alla liturgia del cielo don Francesco Cavazzuti, sacerdote carpigiano, per decenni missionario in Brasile dove, nel 1987, subì l’attentato nel quale perse la vista. Presente tra i concelebranti il vescovo di Cesena-Sarsina monsignor Douglas Regattieri. Sono stati letti i messaggi pervenuti da parte dei Vescovi Emeriti Elio Tinti e Francesco Cavina, da un monaco benedettino brasiliano e sono intervenuti i familiari per un ricordo. E’ stata data lettura del testamento spirituale e una dettagliata biografia di don Cavazzuti, curata dal centro missionario diocesano, ha tracciato i passaggi salienti della vocazione e del ministero sacerdotale di don Cavazzuti.

    Di seguito l’omelia del vescovo monsignor Erio Castellucci.

    “E dopo, ci sarà una luce, Signore?”. Nei “Salmi dal buio”, dettati poco dopo l’attentato che lo aveva reso cieco, don Francesco si fa questa domanda e dà subito la risposta della fede: “Sì, ci sarà una luce”; una fede, la sua, senza incertezze ma non certo senza travagli. La perdita della vista, nel gesto violento che doveva essere in realtà il suo assassinio, diventò la luce attraverso la quale vedeva in profondità le cose. Quel 27 agosto 1987 è certamente il giorno di una grande svolta, un drammatico giro di boa nella sua vita. Dieci anni fa, in una intervista telefonica trasmessa alla televisione, lui stesso ne diede una lettura profonda, riferendo la frase dettagli da un catechista della parrocchia brasiliana nella quale era tornato dopo le cure in Italia: “Tu hai perso la vista, ma noi abbiamo aperto gli occhi”. L’oscurità fu il prezzo che don Francesco pagò per la difesa dei contadini poveri di fronte al potere dei latifondisti e dei politici che li proteggevano. Il suo coraggio e il tragico evento dell’attentato “aprirono gli occhi” alla gente, li resero cioè più consapevoli di come il Vangelo sia incompatibile con l’ingiustizia. Colpisce, tra l’altro, che parlando dell’attentatore, sia pubblicamente sia nei dialoghi personali, più che definirlo killer, lo chiamasse per nome: Antonio.

     

    La sua passione missionaria

    Ma se il punto di svolta è l’attentato, il punto di decollo della sua vita presbiterale è la passione missionaria. Già nei suoi primi incarichi in diocesi si dimostrava libero da compromessi, radicale nel proporre il Vangelo di Gesù, capace di svincolarsi dalle beghe di sacrestia per aprire le persone agli orizzonti del mondo. E quando, dopo almeno tre richieste al vescovo, nel 1969 ottenne finalmente il permesso di partire, non fu una sorpresa, per chi lo conosceva bene. Don Francesco respirava, sulle orme del Concilio Vaticano II, l’ansia di evangelizzare, come San Paolo: “guai a me se non predicassi il Vangelo!”. Quasi quarant’anni lo hanno visto all’opera in Brasile, nelle diverse comunità alle quali venne mandato, dando corpo all’originario invio dei discepoli da parte del Signore risorto, che abbiamo sentito risuonare poco fa: “andate e fate discepoli tutti i popoli”. Le testimonianze, anche quelle recentemente raccolte nel volume a lui dedicato a cura dell’ufficio missionario di Carpi, vanno tutte nella stessa direzione: un uomo che si è identificato con la causa di Cristo, la causa degli svantaggiati e dei perdenti, dei poveri e degli ultimi. Sempre nella convinzione che la fede fosse il dono più grande e liberante da offrire, la gioia che rende piena la vita e spinge ad amare.

     

    Non amava sconti nella vita spirituale

    Don Francesco non era certo uno che facesse sconti. A quei giovani che gli chiedevano se, a suo parere, potevano essere adatti per fare un’esperienza missionaria all’estero, rispondeva: “Sei capace di amare? Allora puoi andare; se non sei capace di amare, resta a casa, perché come sei incapace di amare qui, lo sarai anche lontano”. Sapeva bene che la missione non è questione di chilometri, ma di santità. In un dialogo con lui, l’estate scorsa, mi chiese di tenere presente negli incontri sacerdotali il tema del sacramento della penitenza, perché – e sottolineò parecchio questo concetto – senza un cammino di conversione e di rinuncia al peccato, noi preti facciamo solo della sociologia a basso costo. Davvero non amava i saldi di stagione, nella vita spirituale. Altri, a fine Messa, daranno testimonianza di don Francesco.

     

    Il Signore lo accolga nella sua dimora luminosa

    Io concludo con un piccolo ricordo personale. Nell’ultimo dialogo avuto con lui, nella sua stanza alla Casa del Clero, sono rimasto particolarmente colpito da una frase. Ad un certo momento, visto che già faticava a parlare, l’ho salutato e mi sono alzato, ma lui ha voluto sapere come andavano i seminaristi. Ho detto un generico “bene” e poi ho aggiunto un piccolo apprezzamento nei suoi confronti, dicendo: “e speriamo che la imitino”; e lui, immediatamente: “è meglio sperare che imitino Gesù”. Questo sguardo fisso sul Signore era diventato ancora più acuto da quando aveva perso il lume degli occhi. Che il Signore gli spalanchi ora la sua dimora luminosa, dove non c’è tenebra, né ingiustizia, né morte; dove svaniscono le ombre terrene e trova posto solo la luce dell’amore.

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