Il lavoro tra mente e mani
“Lo sportello di Notizie”: Guido Zaccarelli, consulente d’azienda, docente Unimore, Cavaliere al Merito della Repubblica, dottore e consulente in Management e Innovazione, interviene su questioni inerenti il vivere quotidiano
Sono sempre stato attratto dal mondo del lavoro, fin da piccolo. La mia infanzia è stata segnata dal “fare” condiviso in famiglia: quel fare che diventava presenza, relazione, esperienza vissuta. In campagna, nella raccolta dei prodotti agricoli, o in fabbrica già a 14 anni durante l’estate — nel mio caso a catena di montaggio, meccanica, arredo mobili — ho potuto apprendere il significato, a volte molto ruvido, di come funziona il lavoro nelle aziende e del sistema delle relazioni tra il personale, capi e sottocapi. Una vera scuola, una palestra di vita, che oggi rischia di smarrire i propri fondamenti a causa dell’innalzamento dell’età lavorativa e delle difficoltà che le aziende incontrano quando devono assume-re giovani per far loro fare esperienza. Martin Heidegger lo avrebbe definito EsserCi: farsi presenza come Essere-nel-mondo. Il filosofo ipotizzava una realtà non segnata dal fare meccanico, ma da un esserci con tutto sé stessi. Una realtà che, ora come allora, in determinati contesti, non è cambiata. Queste prime esperienze professionali, intense e per molti versi trasformative, hanno contribuito a lasciare un’impronta profonda che ho cercato di riportare nella mia prima e vera esperienza professionale, dove mi fu affidato un compito complesso: organizzare il lavoro del personale in modo trasversale alle competenze, dentro logiche organizzative complicate.
È lì che ho cominciato a maturare una convinzione chiara: il lavoro va migliorato non solo in termini di efficienza, ma anche di significato, di giustizia e di umanità. Dove la persona sia realmente al centro, non solo come immagine aziendale, ma nella sostanza. Per anni ho vissuto immerso nelle logiche delle grandi organizzazioni. Il mondo delle multinazionali mi ha insegnato a leggere sistemi complessi, a muovermi tra strategie, strutture e processi. Ho imparato a pianificare, a scalare, a ottimizzare. Ma con il tempo, ho sentito crescere una distanza sempre più profonda tra ciò che si decide e ciò che si vive. Tra l’organizzazione e la persona. Il rischio era quello di perdere il senso. Da questa consapevolezza è nato il saggio “Dalla piramide al cerchio: un’idea, un progetto, un percorso”. Un modo diverso di pensare le organizzazioni: più circolari, più partecipative, più relazionali. Allora sembrava un’utopia. Oggi fa parte del nostro quotidiano. Poi è arrivata un’esperienza decisiva: vivere il mondo dell’artigianato, da dentro. Non come spettatore, ma come protagonista nel cercare di applicare le linee guida della conoscenza condivisa, grazie alla stretta vicinanza tra le persone e con la direzione aziendale. E lì ho ritrovato ciò che nelle multinazionali si era in parte perduto: la connessione diretta tra pensiero e gesto, tra visione e materia. Il pensiero che si fa azione. L’idea che prende forma concreta. Ogni oggetto raccontava una storia. Ogni gesto portava dentro di sé intenzione, sapere, responsabilità. Leggendo Kant, una sua frase mi ha colpito in profondità: “La mano è la finestra della mente.” La riporto perché nelle mani non c’è solo tecnica. C’è cultura, progetto, intelligenza viva. C’è l’espressione autentica della creatività. Perché il fare non è un’attività inferiore al pensare. Il fare è pensiero. L’artigiano non inventa dal nulla. Prende la materia, la interpreta, la trasforma. La plasma, come il demiurgo platonico che modella il mondo con la luce dello spirito. La sua maestria è fatta di visione, cura, attenzione. E oggi, nell’era digitale, quando le botteghe tradizionali sembrano scomparse, lontane da quei luoghi che la tradizione ci tramanda come polverosi, l’artigiano è più che mai un innovatore. Non lavora senza tecnologia: la integra, la conosce, la piega al proprio gesto.
Stampa 3D, software CAD, piattaforme digitali convivono con legno, metallo, tessuto. La mano artigiana digitale è cambiata rispetto al passato. È una risorsa per il futuro. Il valore non è più solo nel prodotto, ma nel processo, in quelle abilità che oggi sono nutrite da orizzonti di conoscenza sempre più ampi. Anche il semplice operaio che lavora il ferro deve possedere competenze sempre più avanzate. Non è più solo quantità: il tutto si gioca nella qualità. Non nella standardizzazione, ma nella singolarità. Costruire con le mani, ci ricorda ancora Kant, è pensare responsabilmente. Oggi assistiamo al ritorno di un nuovo “saper fare”. Non come nostalgia, ma come risposta al bisogno di autenticità, di concretezza, di senso e di bellezza — i cui valori siano anche espressione autentica di etica e di sostenibilità. È un movimento nuovo, che ha radici antiche. Un trascendimento etico, un nuovo modo di prendere coscienza dei nuovi contesti, avrebbe scritto il filosofo campano Ernesto De Martino. Perché l’ethos del trascendimento si traduce nel doverCi essere nel mondo, nel dover farsi valere contro il rischio di poterCi non essere in nessun mondo possibile. Un futuro dove la cultura non venga definita solo dalle classi dominanti in cerca di supremazia, ma si fondi su saperi diffusi, accessibili, condivisi. Il nuovo artigianato ci insegna che il lavoro è prima di tutto relazione, ma soprattutto deve infondere il valore di associare alla cultura l’esperienza concreta vissuta a stretto contatto con la realtà. Relazione con il tempo, con la materia, con gli altri. Il futuro del lavoro, se vogliamo che sia davvero umano, dovrà tornare a passare dalla mente attraverso le mani. Perché costruire con le mani significa pensare con responsabilità, scegliere con coscienza, progettare con etica e avere la visione del futuro, di come sarà il prodotto realizzato. Il futuro del lavoro, e forse anche quello dell’economia, non si costruisce solo con numeri e algoritmi. Ma con le mani. E con ciò che le mani, attraverso la mente, sanno creare.