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  • L’urgenza
    Chiesa
    Pubblicato il Aprile 20, 2023

    L’urgenza di costruire la pace

    Ancora oggi attualissimo il messaggio dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII nel 60° della pubblicazione

    di Pier Giuseppe Levoni

     

    Il nostro Vescovo quest’anno ha intitolato “Giustizia e pace si baceranno” la tradizionale lettera alla città di Modena, in occasione della festa del patrono S. Geminiano. Argomento quanto mai attuale in un tempo che conosce di nuovo il flagello della guerra nel nostro continente, a causa della decisione di Putin di invadere l’Ucraina; una tragedia tuttora drammaticamente in corso, senza la prospettiva di una rapida soluzione. Un conflitto sul quale lo stesso mondo cattolico italiano talora non riesce ad esprimersi univocamente, per la ragione che sono in gioco due valori fondamentali, in questo caso difficilmente componibili sul piano strettamente giuridico.

    Ucraina: una pace difficile

    Da un lato si richiama il rispetto assoluto dell’intangibilità del territorio di uno stato sovrano, pena la creazione di un precedente assai pericoloso nel rapporto fra gli stati, come dimostrano sia i passati interventi russi in Georgia e in Crimea, sia la repentina scelta di aderire alla NATO di Finlandia e Svezia, finora neutrali, per timore che l’espansionismo di Putin domani possa coinvolgerle. Dall’altro si invoca il criterio del danno minore, ritenendo preferibile, sul piano dei costi umani e materiali, non sostenere oltre, con l’invio di armi, la pur legittima lotta difensiva degli Ucraini, promuovendo iniziative di tregua, così da evitare anche un possibile allargamento del conflitto, che avrebbe conseguenze ancor più gravi.

    Ovviamente un ipotetico compromesso per la cessazione delle ostilità, considerati i rispettivi rigidi punti vista e la concreta dimensione delle forze direttamente in campo, può consistere solo nella rinuncia, da parte ucraina a “recuperare” tutti i territori occupati dall’invasore, e da parte di Putin ad ottenere il “ritorno” di Kiev sotto la sfera di influenza di Mosca.

    I tentativi di mediazione fin qui messi in atto sono falliti sia perché le parti in causa sono inamovibili sulle loro posizioni, sia soprattutto perché non esiste un’istanza sovranazionale realmente in grado di far dialogare i contendenti. Dopo il fallimento della Società delle Nazioni, creata l’indomani della Prima Guerra Mondiale, risulta oggi sempre più evidente l’incapacità dell’ONU di svolgere un ruolo decisivo nella soluzione dei conflitti, che travagliano tanti popoli con immani sofferenze, come plasticamente rappresentato durante la Via Crucis al Colosseo dello scorso Venerdì Santo.

    Il magistero della Chiesa e la Pacem in terris 

    E’ questo un punto centrale dolente su cui da sempre il magistero della Chiesa si è espresso con chiarezza e lungimiranza, a partire dalla Lettera ai capi dei popoli belligeranti (agosto 1917) di Benedetto XV fino alla Fratelli tutti di papa Francesco. Snodo decisivo di questa serie di documenti fu l’enciclica Pacem in terris di cui in questi giorni ricorre il 60°, richiamata dal Pontefice nel corso dell’udienza generale del 12 aprile con queste parole: “Fu uno squarcio di sereno in mezzo a nubi oscure. Il suo messaggio è attualissimo.”

    Nel 1963, sulla scia del magistero dei suoi predecessori ed in particolare del radiomessaggio del Natale 1941 di Pio XII, papa Giovanni XXIII lanciava il suo appello di pace in una fase delle relazioni internazionali dominata fino allora dalla paura che le armi nucleari potessero colpire l’umanità. Pochi mesi prima, in piena “guerra fredda”, la crisi, determinata dal tentativo dell’URSS di installare missili nella Cuba di Castro, aveva creato le condizioni per un possibile scontro dalle conseguenze catastrofiche. Stava quindi emergendo sempre più largamente la consapevolezza che la disponibilità di queste letali armi rendeva realisticamente impraticabile la via del conflitto militare. La competizione doveva e poteva allora limitarsi ai soli aspetti economici e finanziari, fra l’altro in un contesto in cui la fine del colonialismo e lo sviluppo tecnico-scientifico aprivano prospettive di progressivo sviluppo e benessere per tutti i popoli.

    L’enciclica trattava con visione positiva queste problematiche, disegnando un quadro della realtà mondiale con le sue criticità ma anche con le sue fiduciose aspirazioni. Certo il documento si rifà al consolidato pensiero sociale della Chiesa. I diritti dell’uomo, il bene comune, la tutela delle minoranze, l’interdipendenza delle nazioni e il loro reciproco rispetto, il disarmo, il ruolo decisivo delle istituzioni sovranazionali: tutti questi valori tradizionali sono riaffermati con forza. Ma c’è nel testo un’aria decisamente nuova, propria dell’animo evangelicamente ottimista di quel Papa.

    L’invito a leggere i segni dei tempi

    C’è infatti un rivolgersi a tutti, credenti e non credenti, uomini di buona volontà, per manifestare la simpatia e l’accoglienza da parte della Chiesa cattolica di tutte le speranze del mondo contemporaneo, attraverso la lettura dei segni dei tempi; senza polemiche, senza pregiudiziali condanne. Ma soprattutto c’è la netta distinzione fra le “ideologie” negatrici del destino soprannaturale dell’uomo, da confutare senza ambiguità, e i “movimenti” sociopolitici che storicamente le incarnano, e con i quali è possibile e spesso fecondo dialogare in vista del bene comune. Come si comprende, questa impostazione aprì la strada sia ad un progressivo confronto della Santa Sede con i Paesi comunisti dell’Est europeo, sia anche in Italia ad un dialogo collaborativo fra cattolici e non cattolici, compresi quelli di ispirazione marxista, nell’azione sociale e politica. Ricordo bene come in quei giorni, anche fra i credenti carpigiani, questa prospettiva suscitasse entusiastici consensi negli uni e preoccupate perplessità negli altri.

    Dunque un’esortazione fiduciosa alla pace che ha molteplici dimensioni, dalle relazioni individuali fino a quelle internazionali. Nell’enciclica emerge come basilare il concetto di “disarmo integrale”, una disponibilità che deve sussistere nei singoli, nelle formazioni sociali, entro le comunità politiche e nei rapporti fra gli Stati. A quest’ultimo livello l’attenzione del “Papa Buono” si concentra sulle condizioni che rendono davvero possibile una pace giusta e duratura: verità, giustizia, amore e libertà. Sulla base di questi valori fondamentali, che garantiscono i “diritti della persona”, espressione di ogni ordine morale secondo il disegno di Dio, il documento tratta molte questioni: dallo sviluppo all’immigrazione, dal lavoro ai poteri pubblici, dal disarmo alle istituzioni internazionali.

    L’ONU e l’auspicio disatteso

    In particolare però il paragrafo 75 della Pacem in Terris è dedicato all’ONU, costituita nel 1945 e fonte di quella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (1948) che tante speranze aveva suscitato.  Nel ’63, dopo la paralisi della sua azione, determinata dalla “guerra fredda”, l’istituzione sembrava poter svolgere più efficacemente la sua opera in favore della distensione e dello sviluppo. Si legge così nell’enciclica: “Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite –nelle strutture e nei mezzi- si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti; e che arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone; e che perciò sono diritti universali, inviolabili, inalienabili.”

    Purtroppo questo auspicio di un’istanza di autorevole governo internazionale in questi sei decenni, nonostante qualche positivo intervento pacificatore dell’ONU in taluni conflitti locali, è rimasto disatteso; un’inerzia dovuta principalmente a permanere dell’anacronistico diritto di veto di pochi Stati a bloccare le decisioni del Consiglio di Sicurezza davanti a gravi conflitti, fra cui, particolarmente sensibile per noi italiani, quello attuale in Ucraina. Lo constatiamo purtroppo in tante situazioni di crisi nel mondo, con azioni terroristiche, con l’inedito ricorso alla guerra informatica e il riemergere addirittura di un retaggio storico che credevamo oggi impossibile: truppe mercenarie assoldate per mascherare l’intervento militare di una potenza in più di una situazione.

    Se dunque rimane chiaro per i cristiani l’impegno di farsi operatori di pace ad ogni livello, e per la Chiesa di sviluppare pastoralmente un’azione formativa di base su queste tematiche più ampia e sistematica, resta forte la consapevolezza che il quadro internazionale non consente ingenui ottimismi: per il configurarsi di un sempre più marcato confronto fra regimi democratici e autocrazie, per la pervicacia di certi responsabili delle nazioni , per gli egoismi delle parti in causa e per i colossali interessi economici e politici in gioco.

    Giustizia e pace si baceranno

    Ecco perché è pienamente condivisibile la realistica considerazione finale del nostro Vescovo nella sopra citata lettera alla città: “Giustizie e pace si baceranno, come dice il Salmo, ma solo nel mondo futuro. Le spade diventeranno aratri e le lance falci, scrive il profeta Isaia (2,4), ma solo alla fine dei giorni. Sembra che la pace e la giustizia tardino ad incontrarsi, almeno su questa terra e dentro a questa storia. Ciascuno di noi, però, può dare il proprio contributo lottando contro l’ingiustizia, a partire dai propri ambienti di vita, evitando di alimentare le catene dell’odio e del risentimento, favorendo così la vera pace”.

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